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Diritto ambientale e sviluppo sostenibile

Diritto ambientale e sviluppo sostenibile

SALVATORE MAGRA

Diritto ambientale e sviluppo sostenibile
 

 

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PREMESSA

Il paradigma dell’ambiente è suscettibile di essere studiato a partire da paradigmi prospettici diversi, secondo che si adotti la prospettiva antropocentrica, in cui viene in certo senso ribadita la visione rinascimentale, in ribellione al Medioevo, dell’uomo motore propulsore di tutto, in un contesto, in cui le risorse naturali sono funzionali al suo benessere e il paradigma ecocentrico, in cui si attribuisce autonoma dignità all’ambiente come bene o come coacervo di beni da proteggere. Nel momento in cui entra in vigore la Costituzione repubblicana (1948), si ha una scarsa propensione alla tutela del’ambiente., maturata successivamente

DIRITTO AMBIENTALE INTERNAZIONALE E NAZIONALE

La responsabilità ambientale presuppone la nozione di ambiente. Il legislatore nazionale italiano non ha coniato una definizione univoca di questo concetto, neanche con l’attribuzione all’ambiente di una propria rilevanza costituzionale con la riforma del titolo V della Costituzione (legge cost. 3-2001), che ha conferito allo Stato la competenza legislativa esclusiva in tema di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» [art. 117, co. 2 lett. s)]. La questione definitoria non è stata affrontata neanche dal Legislatore dell’Unione. Si è preferito enucleare i princìpi di salvaguardia per la protezione dell’ambiente, con un’impostazione orientata alla prevenzione, prima che alla riparazione del danno ambientale. L’omissione della definizione di “ambiente” conferma la tesi sostenuta da Massimo Severo Giannini secondo il quale <[1] L’idea alla base della rinuncia a trovare una definizione di ambiente nasce dalla circostanza che, per quanto venga formulata una nozione ampia, residui pur sempre il rischio di marginalizzare alcuni aspetti della problematica degni di tutela. Può pensarsi alla progressiva inclusione dei beni culturali nell’ambito della nozione di ambiente, prima non data per scontata e poi avallata.
L’ambiente difficilmente può essere circostanziato in modo adeguato attraverso il ricorso a categorie giuridiche tradizionali e preesistenti. Il carattere frammentario della legislazione ambientale si è manifestato come inadeguato rispetto alla sempre crescente esigenza di tutela manifestata anche a livello internazionale. Nella risoluzione della questione definitoria si sono, in realtà, contrapposti due distinti orientamenti: quello «pluralista», che enuncia la nozione di ambiente attraverso il riferimento a una pluralità di concetti. Vi è stato, infatti, un tentativo di introdurre una nozione pluralista di “ambiente”, per la prima volta enunciata da Massimo Severo Giannini[2], il quale considera il paesaggio, la difesa del suolo, dell’acqua e dell’aria, la normativa urbanistica. A questa tripartizione gianniniana, si è contrapposta una bipartizione tra la disciplina del paesaggio e quella desumibile dalle norme sulla difesa dell’acqua, dell’aria e del suolo, finalizzate tutte alla tutela della salute ex art. 32 cost., 5 c., oppure una bipartizione fondata sulla gestione sanitaria e gestione territoriale-urbanistica, connesse rispettivamente alla disciplina del diritto ad un ambiente salubre e a quella relativa alle forme ed all’assetto del territorio.[3]

La presenza di tali teorie pluraliste collega un insieme di interessi inquadrato in una serie di leggi di settore, da cui è possibile ricavare un primo dato relativo agli elementi costitutivi dell’ambiente giuridicamente rilevanti, quali l’aria, l’acqua, il suolo, la flora e la fauna, la salute umana e la loro interazione. Ad essi possono aggiungersi il clima, il paesaggio, i monumenti e il patrimonio culturale, le condizioni socio economiche. Sull’opposto versante teorico, i sostenitori della c.d. concezione monista hanno promosso l’accoglimento di una nozione unitaria di ambiente, sostenuta, in due sentenze della Corte di costituzionale, le. nn. 21015 e 64116 del 1987, in cui si teorizza l’esistenza di un bene giuridico ambientale, in rapporto alla istituzione del Ministero dell’Ambiente, dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali La teoria monista è avallata dai Giudici della Suprema Corte di Cassazione (Cass. s.u., 25-1-1989, n. 440, in Riv. giur. amb., 1989, 97 e Cass. 3-2-1998, n. 1087, in Riv. giur. amb., 1998, 711 e in Urb. e app., 1998, 721 e Cass. s.u. 21-2-2002), che propongono una nozione di ambiente unitaria, definendone contestualmente le componenti (il territorio, le risorse naturali, il valore estetico e anche culturale del paesaggio, nonché l’ambiente quale condizione di vita salubre). L’inclusione nel concetto di ambiente dei beni culturali rappresenta il superamento delle definizioni attinenti alla sola sfera biologica, secondo le quali l’ambiente sarebbe collegato solo a questioni di salubrità dell’eco-sistema e dell’uomo. In realtà, la normativa che ha introdotto il Ministero dell’Ambiente è stata interpretata in modo ambiguo, nel senso che per alcuni esegeti si è trattato di un argomento a favore dell’unitarietà della definizione del concetto, per altri della pluralità.

L’ambiente è stato qualificato come bene giuridico in senso unitario che coesiste con beni giuridici aventi ad oggetto componenti del bene ambiente (C. Cost. 378/2007); in tal modo si realizza una sintesi fra definizione unitaria e non. Il diritto all’ambiente può definirsi un diritto “superindividuale”, che trascende la sfera giuridica del singolo.

Si è assistito all’abbandono delle ricostruzioni moniste per pervenire a soluzioni più sfumate, espressioni di una legislazione ibrida, che persegue interessi di ampio respiro. che concepisce la protezione dell’ambiente per il raggiungimento di ulteriori fini e di altri interessi. La dicotomia tra pluralismo e monismo ambientale non esaurisce la pretesa definitoria: la tesi pluralista coglie i tratti di unitarietà, che connotano l’ambiente, dall’altro, quella monistica, è eccessivamente rigida e non coglie appieno le relazioni intercorrenti fra le componenti ambientali e fra esse e l’uomo.

Il problema definitorio appare a chi scrive non decisivo: pertanto, va superato e occorre andare alle categorie giuridiche. Questo aspetto è indubbiamente influenzato dalla distinzione tra una visione antropocentrica ed una visione ecocentrica dell’ambiente Da una lato, la visione antropocentrica esalta la centralità dell’uomo rispetto alla natura, ritenuta soltanto uno strumento per il soddisfacimento dei bisogni umani, dall’altro, la concezione ecocentrica, che considera l’ambiente, o meglio la biosfera, come valore autonomo, dotato di un rilievo intrinseco, indipendentemente da una sua finalizzazione al benessere umano. Figlia della concezione antropocentrica è l’affermazione di un diritto alla salubrità ambientale spettante ad ogni individuo, indisponibile ed azionabile nei confronti dei privati e dei pubblici poteri o di un diritto all’ambiente come diritto della personalità ed aspetto essenziale di esso ovvero come diritto sul bene ambiente La biosfera, da intendersi come «lo spazio occupato dall’insieme degli esseri viventi del nostro pianeta», è, quindi, la combinazione di tutti gli ecosistemi. Espressione della concezione ecocentrica, in base alla quale l’ambiente deve essere considerato come bene indisponibile da conservare e tutelare, è la qualificazione di quest’ultimo come valore o come oggetto di dovere sociale. Partendo dalla premessa della natura «adespota» dell’ambiente tout court considerato, la giurisprudenza ha originariamente qualificato la protezione delle risorse ambientali come interesse diffuso, proprio di una generalità indifferenziata di soggetti, evidenziandone la rispondenza ad una finalità di tipo pubblico. La contitolarità di tale situazione di interesse da parte di una pluralità di soggetti non identificati ha fortemente impedito la salvaguardia dell’ambiente: a tal proposito, parte della giurisprudenza amministrativa ha chiarito che in materia di protezione dei beni dell’ambiente naturale, sono configurabili interessi legittimi tutelabili in sede giurisdizionale in capo a singoli cittadini o ad associazioni solo nel caso in cui la salvaguardia del paesaggio e dei valori dell’ambiente inerisca al godimento concreto di tali beni, essendo necessario un collegamento obiettivo fra i soggetti portatori dell’interesse e gli specifici beni ambientali che ne formano oggetto. Il superamento di tale rigida impostazione è stato compiuto da altra giurisprudenza amministrativa che, attuando uno sforzo ermeneutico non indifferente, ha emancipato l’interesse legittimo dal carattere spiccatamente individuale e lo ha inquadrato in un ambito collettivo, (cfr., Cons. St. ad. plen. 19-10-1979, n. 24, in Giust. Civ., 1980, 1743 ed in Cons. Stato, 1979, 1289; Cons. St. 22-2-1980, n.114, in Foro amm. CDS, 1980, 51 e Cons. St. 29-3-1996, n.507, in Foro amm. CDS, 1996, 976. 32 Cons. St., ad. plen., 19-10-1979, n. 24, cit. e TAR Lazio 13-1-1984, n. 21. 33 A tal proposito, Cons. St. 9-6-1970, n. 523, in Giur. it., 1970, 193)

Si è reso necessario un ulteriore passaggio ermeneutico, consistente nella trasformazione dell’interesse diffuso in interesse collettivo, da ascrivere ad una pluralità circoscritta di individui che possono agire in giudizio in quanto titolari di una posizione differenziata, e quindi di un’autonoma legittimazione, rispetto alla generalità dei singoli fruitori del bene collettivo. Due sono stati i criteri tradizionalmente utilizzati dalla giurisprudenza e dalla dottrina al fine di giuridicizzare, e dunque riconoscere, l’interesse alla tutela dell’ambiente espresso dalle formazioni sociali. Il primo criterio fa leva sulla cosiddetta vicinitas, cioè sulla localizzazione del soggetto, che si assume portatore dell’interesse super-individuale, nel territorio su cui incide il provvedimento amministrativo. Da qui il riconoscimento della sussistenza di un interesse legittimo e la conseguente possibilità per la pluralità di individui residenti in una determinata area geografica di accedere alla tutela giudiziale, avverso un provvedimento lesivo dell’ambiente, in quanto idoneo a colpire una posizione differenziata e qualificata. Il secondo criterio adottato dalla giurisprudenza per schiudere la tutela giudiziale ai soggetti portatori di interessi diffusi è rappresentato dal riconoscimento della tutela giudiziale a coloro che sono ammessi a partecipare al processo. 

La l. 349/1986 recepisce il modello di tutela degli interessi diffusi fondato sull’individuazione dell’ente esponenziale, dettando al contempo rigorose condizioni per il riconoscimento della legittimazione delle associazioni ambientali, all’evidente scopo di circoscrivere in merito il potere del giudice, altrimenti unico arbitro della qualificazione degli interessi e della selezione dei loro portatori. Il problema della giustiziabilità di posizioni giuridiche super-individuali relative alla tutela ambientale è emerso anche dinnanzi al giudice ordinario. Quest’ultimo, così come il giudice amministrativo, subordina il sindacato di legittimità su manifestazioni di potere della Pubblica Amministrazione all’individuazione di una posizione «soggettiva» di interesse in capo al ricorrente, ed ammette l’azionabilità dell’interesse diffuso all’integrità dell’ambiente solo in esito al riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo in capo all’attore, ossia del c.d. «diritto all’ambiente salubre». Tale affermazione della giustiziabilità di interessi super-individuali ha certamente un’importanza storica notevole e un rilievo attuale apprezzabile. A differenza di quanto è accaduto davanti al giudice amministrativo, dove l’interesse diffuso doveva «trasformarsi » in interesse legittimo, attraverso l’individuazione di enti esponenziali, la giurisprudenza ordinaria rende tutelabile l’interesse diffuso solo nella misura in cui coinvolga diritti fondamentali e inviolabili dell’individuo. In questo modo la protezione viene accordata, per definizione, a casi eccezionali e non è mai diretta, ma sempre mediata dal necessario collegamento con una situazione giuridica soggettiva comune alla generalità dei cittadini (da ciò la “super-individualità”), anche se essa stessa è suscettibile di venire rappresentata da un ente che se ne assume portatore.

Il legislatore dell’Unione ha dedicato al diritto ambientale una disciplina organica, La politica dell’Unione in materia ambientale è fondata sui principi della “precauzione”, dell’ “azione preventiva”, sul principio di “correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente”, nonché sul principio di “chi inquina paga”.

Occorre tener conto delle diversità fra i vari Paesi dell’Unione, come criterio per predisporre una soddisfacente politica in materia ambientale, Pertanto, i suddetti princìpi vanno concepiti in maniera armonica, ma, allo stesso tempo, l’Unione deve tener conto delle inevitabili differenze (sintesi fra globalizzazione e glocalizzazione), Ai sensi dell’art.191 TFUE, si deve tener conto delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni europee, dei dati scientifici e tecnici disponibili, nonché dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o dall’assenza dell’azione.

Il principio “chi inquina paga” deve essere interpretato, secondo la Corte di Giustizia, nel senso che i danni ambientali devono essere risarciti dai soggetti che li hanno causati, senza ricadere sulla collettività. A tal fine chi ha provocato il danno deve versare in una situazione di dolo o di colpa e occorre un collegamento causale tra la condotta posta in essere e l’evento dannoso realizzatosi.

L’art. 16 della direttiva 2004/35 (rubricato “ relazioni con il diritto nazionale”) prevede che la stessa direttiva facoltizza gli Stati membri di mantenere o di adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, compresa l’individuazione di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e riparazione previsti dalla stessa direttiva e l’individuazione di altri soggetti responsabili.

L’individuazione, da parte dei Paesi membri, di altri soggetti responsabili (oltre coloro i quali hanno provocato il danno) è una mera facoltà e non un obbligo.Sul principio “chi inquina paga” va segnalato un caso recentissimo: secondo la sentenza 2301-2020 del Consiglio di Stato, la società Edison dovrà pagare le bonifiche del territorio inquinato in Abruzzo, che ha coperto, a suo tempo, di mercurio. Secondo il Consiglio di Stato, ricorre una presunzione di influenza determinante della Montedison (ora Edison) sulle decisioni di Ausimont, anche per l’illecito collegato all’inquinamento successivo al 1981, la responsabilità, a causa dell’unità economica del gruppo, ricade sulla holding. Da ciò deriva una declinazione, parzialmente nuova, del principio ‘chi inquina paga”: chi è autore di un fenomeno di inquinamento o di deterioramento dell’ambiente deve sostenere i costi necessari ad evitare o riparare l’inquinamento o il danno ambientale causato.

La sentenza n. 2301/2020 del Consiglio di Stato in materia di responsabilità per danno ambientale è importante per diversi aspetti: infatti, essa afferma come il danno all’ambiente è ab origine ingiusto, come desumibile dalla nostra Costituzione, ben prima della legislazione speciale degli anni ‘80 e successivi (su discariche e bonifiche). Vi è una valenza sanitaria degli eventi di contaminazione? La risposta è positiva ed è proprio legata al richiamo fatto alla nostra Carta fondamentale, dove si trova una norma, l’articolo 32, che tutela la salute come diritto fondamentale dell’uomo e della collettività. Questa disposizione, sin dagli anni ’70, è il fulcro di una giurisprudenza di sviluppo della protezione dal danno ambientale: ma nella decisione odierna del Consiglio di Stato è fatto un nitido collegamento al tema degli inquinamenti storici e “datati”.

Proteggere l’ambiente dalle aggressioni di ogni forma di inquinamento equivale a proteggere la salute dell’uomo. Ogni forma di aggressione, anche risalente molto indietro nel tempo, (realizzata negli anni ’60), è illecita e produttiva di diritto al risarcimento del danno.
Si opera declinando il principio “chi inquina paga” in modo sostanziale e tale da renderlo effettivo: non basta cedere l’azienda o un ramo di essa per liberarsi da responsabilità.
La recente pronuncia del Giudice Amministrativo contiene affermazioni utilizzabili in molte altre situazioni di illecite contaminazioni risalenti nel tempo ed i veri responsabili che, in giusta applicazione del principio “chi inquina paga”, sono obbligati a ripristinare lo status quo ante e a compensare la popolazione ed il territorio dell’essere stati privati di un ambiente sano. Occorre comprendere concretamente l’importanza, in situazioni come quella della Val Pescara in Abruzzo, e di molte altre in Italia (ferite ancora aperte del nostro territorio e della salute dei cittadini), di svolgere indagini epidemiologiche con criteri scientifici per stabilire il nesso tra determinati fenomeni di contaminazione e certe patologie e quanto incida sul benessere delle persone e dell’ecosistema la presenza di una fonte inquinante, soprattutto se ciò avvenga per molto tempo ed in assenza di informazione adeguata.
Ai sensi dell’art. 240 e ss., d.lgs. 152/2006,  l’autorità amministrativa non può imporre al proprietario incolpevole dell’area da bonificare opere di prevenzione o di riparazione del danno (se non nei limiti e secondo i presupposti contemplati dall’art. 253 del medesimo decreto).

 Non vi è dubbio come il principio “chi inquina paga”, è una regola generale direttamente applicabile all’interno dei Paesi membri, senza necessità, pertanto, che lo stesso debba essere recepito negli ordinamenti interni dei Paesi dell’Unione mediante l’intermediazione dei legislatori nazionali.

Gli ulteriori principi enucleati in ambito comunitario (principio della “precauzione”, “dell’azione preventiva”, “della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente”) mirano ad anticipare l’intervento ad un momento anteriore, rispetto all’evento dannoso: il legislatore comunitario favorisce una politica comunitaria non solo di riparazione del danno, ma orientata, altresì, alla individuazione della mera esposizione al rischio del bene ambientale. Tali principi sono  direttamente contemplati dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, e, quindi, sono automaticamente recepiti  da parte degli ordinamenti dei Paesi membri.

Il diritto nazionale ambientale si può suddividere in due fasi: una prima inizia con la Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma nel 1972, con la stipula di numerosi Trattati di carattere settoriale, basati sul criterio della prevenzione del danno. La seconda fase è inaugurata con la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, coincidente con l’assimilazione di una nozione di globalismo ambientale, per l’avvenuto consolidarsi della convinzione che non si può procedere più per settore, ma occorre attuare una prospettiva di carattere cosmopolitico. Tale diritto ha progressivamente acquisito una connotazione globale, per risolvere problemi che interessano la intera comunità internazionale. Cambia la prospettiva, ma ci si collega alla circostanza che, in passato, già esisteva, magari con diversa denominazione, il concetto di “sviluppo sostenibile”, attraverso una gestione delle risorse naturali, in modo da preservare la possibilità di vita per l’uomo. Ma solo alla metà del secolo XIX, si inizia una gestione comune delle risorse in parola, come i corsi d’acqua internazionali, per fini di navigazione.

Si può al riguardo citare una delle sentenze in tale settore, anche perché si tratta di una delle prime sentenze in materia ambientale per l’ambito sovranazionale, vale a dire la sentenza della Corte permanente di giustizia internazionale del 10 settembre 1929 relativa alla Giurisdizione territoriale della Commissione internazionale dell’Oder, nella quale si afferma l’esistenza di una comunità di interessi alla base di un diritto comune agli Stati rivieraschi applicabile a tutto il corso navigabile del fiume, a prescindere dalle frontiere politiche.

In ogni caso, la nascita del diritto internazionale dell’ambiente (che è auspicabile diventi un diritto mondiale dell’ambiente), si colloca alla metà del secolo XIX, quando ci si rende conto delle ripercussioni dei processi di industrializzazione, con conseguente ipersfruttamento delle risorse ambientali, quanto a inquinamento della biosfera e depauperamento della flora e della fauna. Vengono stipulate convenzioni bilaterali con fini utilitaristici (la Convenzione stipulata tra la Francia e la Gran Bretagna nel novembre 1867, tesa a contrastare l’eccessiva pesca delle ostriche e, soprattutto, la Convenzione per la protezione degli uccelli utili all’agricoltura (a cui denominazione è, invero, indicativa della sua ratio ispiratrice), siglata a Parigi nel 1902, che può essere considerata la prima convenzione multilaterale ad entrare in vigore volta alla protezione di alcune specie animali).

Non si tratta, pertanto, di Convenzioni internazionali di natura ecologista e quindi, in tale fase, si avverte una pretermissione del problema, con la conseguenza che il valore etico di tali accordi risulta fortemente ridimensionato. Occorre pensare anche a sviluppare un patto etico e metaetico per preservare le risorse ambientali.

Agli inizi del XX secolo si stipulano Trattati multilaterali per la protezione di alcune specie faunistiche e si realizzano alcune Convenzioni per la gestione comune fra Stati di risorse condivise. Nel periodo fra le due guerre mondiali si concludono alcune Convenzioni in materia ambientale, come la Convenzione di Londra dell’8 novembre 1933, per la protezione della fauna e della flora naturali in certe parti del mondo, soprattutto l’Africa, considerate in pericolo di estinzione, e la Convenzione di Washington del 12 ottobre 1940 sulla preservazione della fauna, della flora e delle bellezze panoramiche naturali nei paesi americani. Si assiste alla creazione di consistenti problematiche, a causa dell’uso illimitato, da parte degli Stati, del diritto di sovranità sulle risorse naturali. Può citarsi la decisione arbitrale dell’11 marzo 1941, sulla controversia emessa dai fiumi inquinanti della fonderia canadese Smelter, con conseguenze dannose negli Stati Uniti.

In tempi attuali (ultimi trent’anni), la problematica ambientale è diventata sempre più pressante per la comunità internazionale. La protezione costituzionale si è rivelata insufficiente. Il rapporto uomo-ambiente deve cambiare. Da ciò è derivata la stipulazione di Convenzioni bilaterali e multilaterali, attraverso una “globalizzazione” della questione ambientale. La Conferenza della Nazioni Unite di Stoccolma del 1982 sull’ambiente umano (UNCLE) afferma la necessità di tener conto delle ripercussioni sull’ambiente, con conseguente presa di responsabilità a livello planetario, da parte dei cittadini e delle comunità.

Si sono elaborati studi sullo stato di salute del pianeta, sotto l’aspetto ambientale: Il “Programma ambiente delle Nazioni Unite”, il “Programma delle Nazioni per lo sviluppo”, “Unione Internazionale per la Conservazione della Natura”,la Commissione Brundtland su Ambiente e Sviluppo, il Panel scientifico intergovernativo per lo studio dei cambiamenti climatici).

Nel corso degli anni ‘80, si è sottolineata la contraddittorietà dell’applicazione di una nozione di sviluppo intimamente legata all’aspetto economico. Ci si rende conto che occorre porre attenzione anche alla questione sociale. Peraltro, fino a questo punto si attua una politica ambientale non preventiva, mentre, nel corso degli anni ’90, si attua una politica preventiva in rapporto agli ecodisastri: va citata la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, in cui si dà rilievo al nesso fra ambiente e sviluppo. Si percepisce la dimensione globale della problematica della tutela dell’ambiente. Si consolida la convinzione che i Paesi in via di sviluppo debbano provvedere ad assistere nell’ottica di sviluppo sostenibile i Paesi meno sviluppati, ma poi i risultati in concreto di questo percorso si rivelano deludenti. Il piano programmatico dell’UNCED, Agenda 21, contiene iniziative di sviluppo sostenibile. Nel successivo summit mondiale sullo Sviluppo Sostenibile (WSSD, World Summit on Sustainable Development) tenutosi a Johannesburg dal 26 agosto al 4 settembre 2002, si prende atto della scarsa attuazione pratica delle politiche proclamate a proposito dello sviluppo sostenibile.

[1] M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15. 5

[2] M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., cit., 15. 5

[3] B. Cavallo, Profili amministrativi della tutele dell’ambiente: il bene ambientale tra tutela del paesaggio e gestione del territorio, in Riv. trim. dir. pubbl., 1990, 397 s. 7

SVILUPPO SOSTENIBILE

Occorre sviscerare il concetto di “sviluppo sostenibile”1. La nozione può essere acquisita attraverso un’esegesi, basantesi sull’interpretazione del suo opposto, ossia vi è la tendenza, in un’ottica antropocentrica, all’insostenibilità dello sviluppo, con la conseguenza che la progressiva erosione delle risorse ambientali, può portare all’annichilimento della stessa vita umana. Pertanto, dallo sviluppo insostenibile, definibile come uso senza limitazioni di ciò che il sistema ecologico offre, occorre passare all’utilizzo di paradigmi di sviluppo sostenibile, secondo le indicazioni che progressivamente vengono date a livello mondiale, perimetrando queste nozioni. Si possono fornire più definizioni di sviluppo sostenibile2.

L’impresa umana deve cambiare modalità di gestione delle risorse ambientali, per non annichilire l’ambiente. Detto altrimenti, occorre promuovere i diritti umani, intersecando i medesimi con l’integrità ecologica; in caso contrario, gli stessi diritti umani rischiano di non essere tutelati in modo effettivo, anzi il pregiudizio più grave di una politica che non si parametri al paradigma dello sviluppo sostenibile è andare contro i medesimi diritti, quindi il risultato è l’ottenimento di una politica totalmente contraria ai propri interessi. Ciò implica la necessità di un cambiamento di prospettiva, fondato sullo sviluppo sostenibile, nozione basantesi su un uso consapevole delle risorse ambientali, tenendo conto anche e soprattutto della limitatezza di buona parte di esse.

Pertanto, si adopera l’espressione “sviluppo sostenibile”, per riferirsi a uno sviluppo economico, compatibile con l’equità sociale. La nozione di sviluppo tradizionale postula che la natura è un luogo da modificare, per il benessere degli uomini; in tal senso, si può discorrere di sfruttamento della medesima. Lo sviluppo sostenibile è un paradigma ideato nel XX secolo, per ovviare ai problemi ambientali e alla scarsità progressiva delle risorse naturali. Proprio nella seconda metà del XX secolo, il concetto di sviluppo tradizionale entra in crisi, per la presa di coscienza della finitezza delle risorse naturali.

La crescita demografica e la produzione su larga scala, fanno comprendere la esauribilità delle risorse ambientali, una volta che si va avanti nel processo di globalizzazione. La Terra ha una disponibilità di risorse limitata. 3

Questo approccio è corroborato anche mediante dei collegamenti con la fisica, in particolare con la teoria dell’entropia, che afferma come non sia possibile recuperare l’intera quantità di energia di un sistema chiuso. Si tratta di una grandezza scalare, che descrive la propensione di un corpo a scambiare o trasformare energia in un modo piuttosto che in un altro. Il concetto di entropia va collegato al primo principio della termodinamica, secondo cui “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (come l’acqua in ghiaccio e viceversa), con la conseguente (ingannevole) inferenza dell’apparente reversibilità delle trasformazioni attuabili.

Questa conclusione errata si scontra con il secondo principio della termodinamica, secondo cui nel tempo un sistema chiuso tende verso un equilibrio di alta entropia, in cui si perde energia disponibile. Il riciclaggio consente di usare nuovamente le materie prime contenute nei rifiuti, ma non un recupero dell’intera quantità di risorse, in quanto una parte della materia si disperde.

Da quanto esposto, emerge come lo sviluppo non possa essere considerato infinito. La crescita del sistema economico si autosostiene nel tempo, ad esempio attraverso lo sfruttamento delle energie rinnovabili (energia solare) e il riciclaggio della materia già utilizzata, ma ci sono dei limiti. Lo sviluppo sostenibile non è in antitesi con la crescita economica, anzi auspica la crescita stessa insieme con un’etica ambientale non antropocentrica. La crescita economica sostenibile potrebbe essere superiore a quella basata su uno sviluppo non sostenibile e, in ogni caso, è più duratura nel tempo. Nel 1987 si è tentato di definire in modo preciso il concetto di sviluppo sostenibile nel rapporto “Our common future”, elaborato dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo (Commissione Bruntland) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, in cui si afferma che per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Lo sviluppo, pertanto, deve essere collegato alle attività di salvaguardia dell’ambiente, in una sinergia fra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati.

La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), tenuta a Rio de Janeiro nel 1992, ha formalizzato la nozione di sviluppo sostenibile, con gli atti conclusivi del vertice: la Dichiarazione di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo, Agenda 21, la Dichiarazione sulla gestione, la conservazione e lo sviluppo sostenibile delle foreste. Lo sviluppo sostenibile viene definito come “soddisfacimento della qualità della vita mantenendosi entro i limiti della capacità di carico degli ecosistemi che ci sostengono”

Ciò implica una rivisitazione del concetto di sviluppo sostenibile, postulando l’armonizzazione con l’ecosistema, l’assenza di abuso delle risorse ambientali. Emerge il tentativo di creare una nuova filosofia, centrata sulla natura, seguita dall’elaborazione di un nuovo codice di responsabilità, centrato non sull’uomo, bensì verso animali, piante, ecosistemi. La contrapposizione è fra antropocentrismo e filosofia focalizzata sulla natura (ecocentrismo).

La prospettiva antropocentrica colloca l’uomo al centro di tutto. Un progetto di vita è riconosciuto solo alle persone, non a piante e animali. Si elabora un contratto sociale fra gli individui, in un contesto in cui è valida l’espressione “ubi homo ibi ius”. Vi è una reificazione di animali, piante, come se esse non fossero essere viventi. Si elabora un diritto umano di natura centrato sull’uomo, con costi che ricadono sull’ambiente, con lo scopo di massimizzare il beneficio per l’uomo, proprio attraverso il massimo sfruttamento delle risorse ambientali. La responsabilità per l’ambiente può essere valutata dall’uomo in una prospettiva in cui questi è al centro di tutto. Questo è il sistema di pensiero delle organizzazioni ambientali e può considerarsi una forma di antropocentrismo forte. Vi è una fiducia di notevole intensità nella tecnocrazia e nell’economia di mercato.

Si postula che l’uomo sia il “signore” indiscusso della natura. La spaventosa efficacia distruttiva del paradigma antropocentrico ha dimostrato la contestabilità “sul campo” di questi assunti. Occorre rivisitare le modalità dell’uomo di rapportarsi con la natura. Ne deriva una nuova riflessione sull’esistenza e sul rapporto con l’ecosistema.

Oggi si è accertato che la sopravvivenza dell’uomo dipende in modo marcato da come egli stesso utilizzerà le risorse ambientali e questa constatazione decisiva ha portato alla creazione di correnti più moderate dell’antropocentrismo. Il concetto di sviluppo sostenibile si innesta a quello di antropocentrismo debole. Si pensi a quando Gifford Pinchot (1865-1946), consulente ambientale del Presidente Roosvelt, suggerisce di fermare la distruzione della natura selvaggia, per il principio di conservazione. Le risorse rinnovabili devono avere il tempo per rinnovarsi, in modo che di esse possa fruire la generazione futura. Le risorse che non si rigenerano (petrolio) devono essere usate con prudenza, perché durino il più a lungo possibile. La conservazione è focalizzata sui beni materiali, la “protezione” si focalizza sui beni ideali (passeggiata in un bosco)

A base dell’antropocentrismo debole, si può ritrovare la convergenza sia di una concezione morale, la quale percepisce nella conservazione ambientale un punto di riferimento importante, sia di una concezione teologica, che percepisce il ruolo dell’uomo come conservatore del Creato.

Secondo un approccio (c.d. “Navetta spaziale”), le Nazioni capitalistiche devono porre parte della loro ricchezza in favore delle persone bisognose, supportando i Paesi non sviluppati in modo che si attui una sinergia, in quanto un crollo dei Paesi in via di sviluppo avrebbe una conseguenza negativa anche sugli altri Stati. C’è chi dubita della possibilità di realizzare questa sinergia per l’eccessivo numero di uomini, per l’esponenziale crescita della popolazione. L’uso delle risorse comuni aumenta e si arriva alla devastazione.

Il secondo indirizzo, nato dall’opera di Garret Hardin, sviluppato nel volume “The Tragedy of the Commons” denominato “Scialuppa di salvataggio”, critica il precedente, ipotizzato tentativo di sinergia fra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati, per la crescita esponenziale degli uomini, che porta a un annichilimento delle risorse.

In questa ottica, ciascun Paese sviluppato funge da scialuppa di salvataggio e nell’oceano nuotano i poveri che vengono accolti in ciascuna scialuppa. Peraltro, non si possono accogliere tutti i poveri, per restare all’interno di questa metafora; si rischia di andare a fondo tutti.

La sinergia fra Paesi sviluppati e Paesi sottosviluppati, che vivono una condizione di povertà, può risolversi, secondo Hardin, privatizzando le risorse. Si replica (Cohen) che raramente i costi sociali sono allocati presso la sfera del proprietario privato.

Si tratta di una ricostruzione fallace della realtà, in quanto spesso le politiche delle Nazioni ricche richiedono pagamenti ai Paesi poveri, con riferimento agli interessi dei debiti dei Paesi meno sviluppati. Spesso i Paesi meno sviluppati vengono indotti a coltivare prodotti, di cui potranno fruire i Paesi sviluppati.

Orbene, la distruzione delle biodiversità e l’impoverimento del suolo sono responsabili della povertà dei Paesi in via di sviluppo. Può riflettersi sulla posizione dello scrittore Murray Bookchin, che si focalizza sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’ecologia sociale degenera nello sfruttamento, più specificamente, dell’uomo sulla donna, di una classe di potere su un’altra, di un Paese più sviluppato su un altro, con una tendenza opposta alla sinergia fra Paesi con grado di sviluppo diverso. L’estinzione ecologica può evitarsi solo a condizione che si blocchino queste forme di sfruttamento. Per completezza, può affermarsi che i rapporti sociali fra sesso, razze e popoli devono essere affrontati con livello prioritario, ma non sono sufficienti per risolvere il problema ambientale. Bisogna considerare il rapporto fra l’uomo e gli altri esseri viventi. Anche la versione moderata dell’antropocentrismo subordina all’uomo il mondo vivente. Si contesta questa posizione, perché il mondo vivente viene relegato a un ruolo subordinato.

La contestazione di questo assunto dà spazio al biocentrismo, che può distinguersi in olistico e individualistico. In questo secondo caso, si rispetta l’essere vivente anche diverso dall’uomo, ivi compreso l’animale. Si applica un “utilitarismo della somma” (Singer), con la valutazione delle conseguenze algebriche di tale operazione, con il tentativo di individuare la massima felicità per i soggetti coinvolti, ma ciò può portare a conseguenze molto negative per alcune componenti. Per esempio, in presenza di un consistente vantaggio per la maggioranza, si può arrivare anche all’eliminazione di uno o più esseri viventi. Il biocentrismo sostiene che la natura è un bene in sé e va emancipata dal volere umano.

Esiste anche il c.d. “utilitarismo della preferenza”, secondo cui non si potrebbe accettare l’idea di uccidere un essere vivente, anche se ciò possa portare beneficio alla maggioranza. In quest’ottica, gli animali superiori sono in grado di percepire o avere delle preferenze ed entrano nella comunità di Singer, non così gli animali inferiori e le piante, che vanno ugualmente considerati, ma hanno diritti minori.

Per il filosofo Regan gli animali hanno bisogno di diritti non per concessione umana, ma perché hanno un valore intrinseco e di questo occorre prendere atto. L’essere soggetto di una vita è condizione sufficiente per avere un valore intrinseco.

Nell’ottica biocentrica, il primato dell’uomo è mediato dalla riflessione dell’uomo su se stesso, e, quindi, ha natura soggettiva, ma occorre tener conto degli elementi essenziali sul piano ecologico, senza i quali il sistema collasserebbe. Occorre lasciare spazio anche agli altri esseri viventi. In una versione il biocentrismo assume la connotazione di olismo biocentrico (Aldo Leopold), in cui si focalizza l’attenzione sul gruppo. Tale approccio consente l’abbattimento di alcuni capi di animali, che non sono a rischio di estinzione. Secondo l’individualismo biocentrico, è preclusa la possibilità di abbattere il singolo animale.

E’ stata sviluppata anche una linea di pensiero denominata “etica della terra”, elaborata dallo stesso Aldo Leopold, dopo un ripensamento delle sue posizioni. Si afferma che l’ambiente naturale è costituito da una comunità biotica e la selezione naturale ci dà gli elementi, per comprendere chi siano gli elementi della comunità ecologica. L’uomo è parte integrante delle comunità ecologiche e, quindi, deve riconoscere i diritti della natura. La natura è un’entità viva, in conformità ai collegamenti elementari ed energetici. Si deve tener conto dei processi ecosistemici e la natura assume un valore per sé e non solo in quanto attribuito dall’essere umano.

Secondo la concezione del filosofo Holmes Roston III, che riprende le concezioni di Leopold, ci si chiede per quale ragione la coscienza umana deve essere il paradigma, per negare alle altre forme di vita una considerazione etica. E’ il gruppo, che determina il futuro dei singoli. La specie ha un “diritto all’integrità” più importante del diritto del singolo. Gli ecosistemi hanno un valore “sistemico”. Gli uomini non sono così importanti da distruggere gli ecosistemi. L’etica del valore è biocentrica e olistica.

“Il principio di vita” di Goodpaster e il “rispetto per la natura “ di Taylor propongono una mediazione fra biocentrismo olistico e biocentrismo individualistico, configurando i diritti per gli esseri non -umani e una gestione saggia del territorio. Occorre valorizzare gli insiemi. Gli animali e le piante possono raggiungere un rispetto etico, attraverso una dilatazione dell’etica, originariamente riservata agli uomini. Gli esseri naturali devono raggiungere il massimo della loro potenzialità biologica. Pertanto, il bene della natura deve essere di importanza primaria, rispetto a quello umano. Bisogna promuovere il mantenimento del gruppo come sistema coerente.

Occorre adesso trattare del mix fra antropocentrismo ed ecocentrismo (c.d. “ecologia profonda”). La natura non va separata dall’uomo e l’etica ambientale va messa da parte. L’uomo deve ritrovare una sua collocazione nella natura. L’ecologia profonda nasce da un articolo di Arne Naess, in cui si elabora un’ecosofia. Occorre acquisire una coscienza ecologica, focalizzata su uno stato attivo dell’essere. Un’applicazione dell’ecologia profonda è il bioregionalismo e si fonda sull’autorealizzazione di tutti gli esseri umani e non umani nell’ottica di un’uguaglianza biocentrica. L’autorealizzazione del singolo essere vivente si incorpora nell’autorealizzazione globale, che postula come la vita sia non solo rappresentata dall’essere umano, ma da una pluralità di esseri viventi. Si afferma che gli animali sono esseri senzienti, capaci, entro certi limiti, di effettuare valutazioni autonome. Occorre rispettare anche l’integrità della flora e degli ecosistemi. Si perviene a dimensioni olistiche, con la valorizzazione della tutela della biosfera. In questo contesto, c’è chi propende per un olismo umanistico, collegato alla preoccupazione in via prioritaria per i valori dell’uomo, un altro filone propende per un egualitarismo biosferico. Gli esseri umani sono assimilati alla natura. Peraltro, l’egualitarismo fra diritti di esseri umani e non umani rischia di portare a situazioni oggettivamente irragionevoli, trattando in modo eguale situazioni ontologicamente differenziate, con la violazione della base costituzionale del principio di eguaglianza giuridica, che ha portata universale e non solo nazionale.

Conservazione e sviluppo sostenibile rappresentano gli elementi principali della visione moderna sulla gestione ambientale. Peraltro, bisogna affrancarsi dalla tendenza a utilizzare l’ambiente come un bene strumentale per il benessere dell’uomo. Nei primi anni ‘60 esce il libro “Silent Spring” della biologa Rachel Carson, a partire dal quale si consolidano gli allarmismi, si prende atto del conflitto dell’uomo con la natura, con una critica del capitalismo, per la quale lo stessa è utilizzato solo come mezzo, per il benessere dell’uomo. Vi è una progressiva affermazione delle teorie olistiche. L’Animal Welfare Act, l’Endangered Species Protection Act (1966), l’Endangered Species Conservation Act (1969) hanno una visione più moderna, ma sono ancora legate al predominio dell’uomo sulla natura. L’ Endangered Species Act (ESA) del 1973 si caratterizza per una visione più focalizzata sulla natura, ma resta sempre il polimorfismo della filosofia ambientale.

Si può riflettere sulle posizioni filosofiche ambientali non già come concezioni rigidamente separate, bensì come un percorso variegato di idee che spaziano da un antropocentrismo rigido, il quale poi ha varie manifestazioni di diversa gradazione, ad un biocentrismo altrettanto radicale, anch’esso con diverse gradazioni.

Qualsiasi schematizzazione è limitante nell’esprimere la realtà. Nell’ambito di un antropocentrismo debole possiamo poi trovare sia motivazioni laiche che vedono nella stessa morale umana una giustificazione, sia posizioni teologiche, che vedono il Creato appartenere al Creatore e l’uomo come il “saggio amministratore”, cui lo stesso Creatore avrebbe concesso il diritto di fruizione.

Bibliografia sullo sviluppo sostenibile disponibile presso la Biblioteca del Senato

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2) Dal sito del wwf : Lo sviluppo sostenibile è stato definito nel tempo in vari modi. Come indica il WWF nel suo “Living Planet Report”, vuol dire imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta. Quindi lo sviluppo sostenibile è la capacità della nostra specie di riuscire a vivere, in maniera dignitosa ed equa per tutti, senza distruggere i sistemi naturali da cui traiamo le risorse per vivere e senza oltrepassare le loro capacità di assorbire gli scarti e i rifiuti dovuti alle nostre attività produttive.

Per ottenere uno sviluppo delle società umane che sia sostenibile è necessario che:
• l’intervento umano sia limitato entro le capacità di carico dei sistemi naturali conservandone la loro vitalità e la loro resilienza;
• il progresso tecnologico per la produzione di beni e servizi venga indirizzato all’incremento dell’efficienza piuttosto che all’incremento del flusso di energia e materie prime;
• i livelli di prelievo delle risorse non rinnovabili ecceda le loro capacità rigenerative;
• l’emissione di scarti e rifiuti (solidi, liquidi e gassosi) dovuti al metabolismo dei sistemi sociali non ecceda la capacità di assimilazione dei sistemi naturali (https://www.wwf.it/il_pianeta/sostenibilita/il_wwf_per_una_cultura_della_sostenibilita/perche_e_importante2/cos_e_lo_sviluppo_sostenibile_/)

3) Cfr.https://sostenibilitaequitasolidarieta.it/lo-sviluppo-non-e-sostenibile/, ove si legge Per affrontare la crisi climatica non serve ripetere pappagallescamente le formule dello sviluppo sostenibile, della crescita verde, della crescita sostenibile, a cui ultimamente si è aggiunta la formula dell’economia circolare. Come le sue antesignane, anch’essa si basa sulla convinzione che utilizzando tecnologie più efficienti e meno impattanti sia possibile disaccoppiare la crescita economica dalla crescita dei fattori di crisi ambientali. Occorre riflettere sulla https://mk0eeborgicuypctuf7e.kinstacdn.com/wp-content/uploads/2019/07/Decoupling-Debunked.pdf, pubblicata l’8 Luglio 2019. Il disaccoppiamento dell’uso delle risorse dalla crescita economica (crescita verde) da solo non è sufficiente per evitare il collasso ambientale globale.L’esito di questa ricerca, che smentisce la possibilità di ridurre la crisi ambientale continuando a finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci, è stato inaspettatamente riportato il 28 agosto 2019, da La Stampa, un giornale mainstream che, come tutti gli altri, si era sempre attenuto alla formula dello sviluppo sostenibile, introdotta nell’immaginario collettivo dal rapporto Our common future, redatto nel 1987 per conto dell’Onu dalla Commissione Brundtland. Una formula che, a trent’anni di distanza e di smentite, è ancora sostenuta dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. E, con un inferiore impatto mediatico, dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile.
4) http://www.treccani.it/vocabolario/entropia/
 

 

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