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Verità e fake news

Verità e fake news

CHRISTOPH JAMME

Verità e fake news

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Presumibilmente viviamo nell’epoca dell’informazione, ma queste informazioni stanno diventando sempre più un problema o, meglio, non tanto le informazioni in sé, quanto piuttosto le vie per le quali esse si ottengono. I giovani, per esempio, non si appropriano delle informazioni dai media tradizionali, bensì da youtube e da altri social media. Quando ci si comincia a confrontare con un tema, youtube può
fungere da paraocchi. Ciò che youtube offre all’utente si basa sempre su ciò che questi ha cercato precedentemente o che digita nuovamente. Gli algoritmi di suggerimento (Empfehlungsalgorithmen) di youtube nascondono quindi, in modo permanente, altri e forse fastidiosi punti di vista e rafforzano l’utente nella propria opinione (che magari così si radicalizza).

Ciò rende questi social media anche estremamente vulnerabili alla demagogia, come ha mostrato l’attuale campagna contro la riforma del copyright dell’UE. La mobilitazione emotiva spesso prende il posto della rilevanza fattuale dei discorsi. Con un’ondata di false affermazioni i populisti stanno inondando lo spazio pubblico. 
Sempre più persone sono convinte, per esempio, che il cambiamento climatico non sia di nostra esclusiva responsabilità. Le dichiarazioni contrarie dei climatologi le considerano sintomo di una cospirazione globale. L’alternativa a ciò non può essere, però, mettere gli scettici  nell’angolo dei contemporanei senza cervello. La filosofia deve offrire una risposta a questo crescente scetticismo. Essa consiste nello spiegare dettagliatamente quali argomenti e percorsi ricerca hanno condotto i climatologi ai loro risultati. Da alcuni anni esiste a livello mondiale una crescente comunità di filosofi della scienza (Eric Winsberg, per esempio), i quali si confrontano intensamente con la ricerca sul clima e il suo
approccio, esaminano filosoficamente e criticamente le ipotesi che vengono formulate, le incertezze prevalenti e la validità delle affermazioni.

È importante che i filosofi si cimentino fuori dalla copertura accademica e si esprimano su questioni politicamente ed economicamente rilevanti. Molti, non solo rappresentanti del campo liberale, ritengono le volutamente false informazioni dei populisti di destra una minaccia. Alla democrazia, a quanto pare, appartiene una politica orientata ai fatti.

Di recente la Cancelleria di Stato della Renania-Palatinato ha inviato il seguente messaggio: "Siamo convinti che il riconoscimento incondizionato dei fatti faccia parte del fondamento dei valori della nostra società liberale. La disponibilità, anzi la necessità di separare certezze da ipotesi e fatti da opinioni è essenziale per il successo di un dibattito democratico". (Come autori di questa "dichiarazione" hanno
firmato il Primo Ministro Malu Dreyer e lo scrittore Robert Menasse. Che proprio Menasse invochi la fedeltà ai fatti è un po’ strano, poiché egli stesso ha inventato fatti).

Per quanto sia vero che la conoscenza e non i sentimenti deve guidare le azioni, altrimenti incombe la minaccia della rovina della comunità, d’altra parte è anche vero che una politica satura di fatti non è necessariamente collegata alla democrazia e, viceversa, una costituzione democratica non è necessariamente collegata al dominio dei fatti. Come ha recentemente scritto il filologo classico Jonas Grethlein: "L’appello ai fatti ha piuttosto una connotazione elitaria; esso presuppone una formazione che si rivendica per sé e che si nega ai propri avversari. Per
quanto possa essere giustificata l’indignazione per la disinformazione voluta, l’insistere sull’obiettività e la stigmatizzazione della retorica sofistica possono essere ugualmente una strategia retorica e un mezzo per evidenti interessi particolari." (FAZ, 18.12.2018).

A peggiorare le cose si aggiunge che la realtà effettuale (Wirklichkeit) non è quella fissa grandezza ontologica che da Frank Böckelmann a Norbert Bolz viene schierata contro avversari politici spiacevoli del campo della sinistra liberale. Secondo Christian Geyer, la "Wirklichkeit" non può essere "colta dall’albero come una mela matura". Chi monopolizzi il reale come "realissimum" (Böckelmann), perde di vista il fatto che sulle concezioni del “Reale” non si può prescindere da considerazioni epistemologiche di base nonché dall’esperienza politica pratica. "Uno
dei grandi traguardi raggiunti dagli studi delle Scienze della Cultura", ha affermato Helmuth Lethen, "è stato ed è ancora lo studio degli elementi di costruzione linguistica e visiva che producono gli ‘effetti del Reale’ nonché come le Realtà effettuali (Wirklichkeiten) siano prodotte tramite tecniche di routine, sia splendenti di luce propria (evidentia), sia anche semplicemente di luce riflessa”. Lo stesso vale
per l’appello a supposte verità. Anche qui è necessaria una riflessione filosofica fondamentale.

“Verità” è uno dei concetti più controversi della filosofia. Kant ha sostenuto che non esiste un criterio universale di verità (KrV B 82). Tale criterio è tuttavia indispensabile, perché la scienza si basa sulla conoscenza e questa sul possesso della verità. La questione della verità - prima di tutto: cos’è la verità, cioè la questione del concetto della verità -, è quindi una questione centrale della filosofia. Dopotutto la tematica della verità appartiene a quei membri privilegiati dello stock dei problemi filosofici, scrive G. Siegwart, che non sono diventati meno interessanti in
seguito ai tanti cambiamenti di mentalità né tantomeno sono stati respinti come qualcosa di obsoleto. Secondo Siegwart, questa capacità di sopravvivere può essere interpretata come un indicatore affidabile della “complessità eccedente” (Überkomplexität) del problema nella comunità dei filosofi.

Di seguito, mi occuperò prima della verità teorica, cioè di un concetto epistemologico o epistemico di verità, prima di entrare poi nella dimensione morale. Desidero prima tentare di fornire una breve panoramica su determinazioni centrali della verità, che sono state discusse sin dall’antichità (si veda a tal proposito l’articolo ’Truth’ di Petra Kolmer, in: Neues Handbuch philosophischer Grundbegriffe, Volume 3, Freiburg i Brsg., 2011, 2397-2415).

Innanzitutto, c’è la determinazione ontologica della verità, come formulata da Platone nel suo dialogo La Repubblica. Secondo tale dialogo è l’Idea del Bene che conferisce all’essere ‘verità’, dunque sia all’essere essente nella realtà sia all’essere riconoscibile come verità; l’Idea del Bene sta quindi ancora al di sopra della verità. Questa determinazione ontologica della verità divenne famosa nella formulazione di Agostino: "verum mihi videtur esse, id quod est" (“mi sembra esser vero, ciò che è”).

Accanto a tale concezione platonica è poi diventata famosa l’altra, ugualmente formulata nell’antichità, in particolare da Aristotele, ossia la teoria della corrispondenza o dell’adeguatezza della verità, alla quale fu conferita da S.Tommaso nel Medioevo la formulazione ancor oggi valida: “Veritas est adaequatio rei et intellectus" (la verità è la corrispondenza della cosa e dell’intelletto).

Da tali teorie si è poi sviluppato il classico verificazionismo rappresentato da Russell, Wittgenstein e Austin: un’affermazione è soltanto allora vera, se a essa corrisponde un contenuto (Sachverhalt), un fatto (Tatsache). Il problema cruciale per questa teoria è conferire un chiaro significato alle espressioni ‘fatto’ (Tatsache) e ‘corrispondenza’ (Übereinstimmung) che appaiono nella definizione.
Heidegger ha quindi criticato il concetto tradizionale di verità come mera "certezza" (“Gewissheit“) e ha posto la questione di cosa sia sempre implicitamente presupposto nell’intera relazione dell’Adaequatio di Intellectus e Res, ovvero che carattere abbia tale presupposizione. Il riferimento alla relazione soggettooggetto e l’uscita dall’atto cognitivo associata a esso (che è attuato nel giudicare - Urteilen) non sono sufficienti. Con ciò nasce l’esigenza di mettere in discussione nei particolari il modo di essere della conoscenza (Erkennen). Esso risiede
nell’”essere-scoperta” dell’affermazione, il che è ontologicamente possibile tuttavia solo sulla base dell’essere-nel-mondo. La scoperta dell’affermazione e il disvelamento (Entdecktheit) dell’essere-nel-mondo si basano a loro volta sull’apertura (Erschlossenheit) o chiusura (Verschlossenheit) dell’esserci (Dasein). Ciò significa che la verità deve essere strappata all’essente (Seienden) sempre di nuovo. Heidegger trova tale concetto già nell’equivalente greco della verità, A-letheia, che significa rivelazione, disvelamento.

Anche la ‘teoria della coerenza’ (orientata a Hegel) di L. B. Puntel attira l’attenzione sugli aspetti ontologici di una teoria della verità. Essa mette in luce di nuovo la verità come sistema di sistemi (linguaggio e mondo) e persegue un approccio integrativo soprattutto in riferimento alla teoria della corrispondenza. Punto di partenza è la concezione, già formulata da autori tardomedievali, secondo cui anche se un concetto proposizionale della verità viene scelto come punto di partenza, una semplice analisi della proposizione (ad esempio nel contesto di una semantica formale) non è sufficiente. Occorre anche, infatti, esaminare in che modo le frasi siano collegate alla realtà (Wirklichkeit) e possano essere rese vere da essa.
Per un tal esame è decisivo che si spieghi cosa s’intenda in linea generale per realtà (Wirklichkeit). Dietro di ciò sta l’ipotesi realistico-concettuale (begriffrealistische) di un mondo “in sé” strutturato in modo proposizionale, sostenuta soprattutto da Hegel e dal tardo Wittgenstein. In essa il mondo è in linea teorica essenzialmente un insieme di fatti, un "campo intellegibile", esprimibile attraverso un linguaggio avente forma proposizionale e progettato anche per l’espressività.

Secondo Puntel per ‘proposizioni’ non bisogna intendere solo il contenuto d’informazione di una frase, bensì anche una, anzi la primaria identità ontologica, se all’opposizione di linguaggio e realtà (Wirklichkeit), caratteristica dell’ontologia oggettiva (Objektontologie), viene tolto il terreno e la verità deve poter essere portata filosoficamente in risalto così come noi la comprendiamo intuitivamente, ossia come relazione di corrispondenza nel senso della teoria dell’adeguatezza (Adäquationstheorie) della verità.
Troviamo una simile teoria della coerenza (Kohärenztheorie) anche in Otto Neurath e Nicolas Rescher: la verità di un’affermazione consiste nel fatto che essa si lascia integrare in modo coerente in un sistema di affermazioni.

Anche la teoria del consenso della verità (Peirce, Habermas) svolge un ruolo importante nel presente: un’affermazione è vera se in condizioni ideali vi sia un consenso su di essa.

È interessante considerare la pratica giuridica in relazione alle comuni teorie filosofiche della verità. Attenendosi la teoria e la prassi del diritto in linea di principio alla teoria della corrispondenza, giacché formulano la pretesa giuridica di ricostruire effettivamente ciò che è accaduto, si allineano alla teoria della corrispondenza nel momento in cui il diritto civile e penale consentono accordi e compromessi tra le parti coinvolte in un processo. Da nessuna parte si rinuncia insomma a una pretesa oggettiva (verobjektivierten) della verità.

Nonostante tutte le differenze esiste oggi comunque in generale in filosofia un consenso per il quale il termine "vero" è da applicare solo ad affermazioni (Aussagen), ossia alla funzione logica di frasi (Sätze), soprattutto nel contesto dichiarativo-teoretico del considerare, caratterizzare, riferire, dunque a espressioni complesse del linguaggio "cognitivo" (basato su frasi e includente un sistema ontologico di concetti).

Si è anche ampiamente d’accordo che il concetto di ‘verità’ sia da differenziare rispetto al concetto di fondazione (Begründung) o giustificazione. Un’affermazione può essere vera senza che essa sia stata fondata e ugualmente essa può essere fondata, ma falsa. Al contrario del concetto di ‘fondatezza’ (Begründtheit) la Verità è inoltre assoluta, cioè non graduabile. Mentre un contenuto può essere più o meno ben giustificato, sarebbe insensato dire che un’affermazione sia più vera di un’altra o che sia vera in questo o quel grado.

Oggi molti filosofi teoretici sostengono la tesi che la "verità" non presenti alcun contenuto cognitivo e ci si debba alla fine rinunciare (pensatori postmoderni o relativisti). Gottlob Frege e Donald Davidson hanno sostenuto la tesi “che il contenuto della parola ‘vero’ è del tutto unico e indefinibile" (Frege 1918).

Personalmente sono fermamente convinto che le sommariamente evidenziate varietà e non chiarezza, che da sempre contraddistinguono sia i concetti filosofici e le teorie della verità come anche le nostre comprensioni non-filosofiche della verità, non possano essere filosoficamente né ridotte né addirittura eliminate. Infatti ciò che intendiamo per "vero" e "verità" dipende da convinzioni guida e intenzioni fondamentali che appartengono a una visione esistenziale in definitiva personale della realtà (Wirklichkeit) nel suo insieme. Questa visione include la determinazione di uno scopo pratico superiore.

La verità o il concetto del "vero" designano già nell’antichità non solo l’obiettivo della conoscenza, ma anche l’obbligo etico della veridicità (Wahrhaftigkeit). Di contro sta non solo l’errore, ma anche la bugia. Le nostre comprensioni della verità, come anche i concetti e le teorie dipendono da intuizioni (Einsichten) prive di concetti che riguardano noi stessi, la nostra esperienza di vita e la nostra difficile esistenza nel mondo.
Prima di approfondire questo concetto pratico-morale della verità, sia menzionato qui a margine un testo che è stato abbastanza popolare in filosofia e negli studi letterari negli ultimi anni, vale a dire il saggio del lascito di Nietzsche Sulla verità e la menzogna nel senso extra-morale (Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne) del 1873.

A causa del carattere del linguaggio come semplice metafora delle cose, Nietzsche critica in questo testo la pretesa di verità avanzata dalla filosofia nel linguaggio. Un concetto è solo "il residuo di una metafora" e pertanto la verità soltanto "un esercito mobile di metafore", cioè un’illusione di cui abbiamo solo dimenticato che si tratti di un’illusione. In evidente vicinanza alla teoria del linguaggio del primo romanticismo, Nietzsche fa precedere quindi la formazione del concetto filosofico da una formazione artistica di metafore e dichiara la scienza "luogo di sepoltura dell’intuizione (Anschauung)". All’apice della formazione scientifica del concetto irrompe però di nuovo il bisogno originario di arte: "…quell’impulso alla formazione di metafore... in verità non è sconfitto e per nulla domato dal fatto che dalle sue produzioni volatilizzate, dai concetti … gli viene costruita una fortezza tutt’intorno. Esso cerca per sé un nuovo campo d’azione e un altro alveo e lo trova
nel mito e nell’arte in generale.” Così Nietzsche inverte il rapporto di causa-effetto tra arte e scienza: facendo egli derivare la scienza da un impulso metaforico, questa assume un carattere soltanto transitorio e si trasforma in arte. Qui si potrebbe dire molto di più sul rapporto tra mito e verità, come ho già fatto dettagliatamente altrove e quindi non desidero ripetere qui.

Torniamo ora indietro perciò al concetto della verità in senso morale. Già nell’antichità si era della ferma convinzione che occorra avere idee chiare sulla differenza tra il vero e il falso già soltanto perché altrimenti non è possibile agire in modo responsabile.

Sin dal dialogo Teeteto di Platone e del confronto della Stoà con lo scetticismo accademico ci si occupa sempre della differenza tra opinione (doxa) e sapere nonché della questione di come si possa pervenire a un’opinione fondata (begründeten).

Si tratta dunque dei fondamenti (Gründe). Occorre mostrare non solo che ci sia la possibilità di avere opinioni vere, ma anche che si possa sapere e non soltanto opinare qualcosa.

Nel dialogo platonico Il Sofista, sulla base dell’esempio della differenza tra filosofi e sofisti si pone per questo motivo la questione se qualcuno possa veramente sapere tutto. Al sofista manca il carattere del pensatore che filosoficamente si accontenta. Quando il sofista afferma di poter parlare di tutto in modo antilogico (antilogisch), implicitamente avanza la pretesa di essere onnisciente (allwissend).
Platone però dimostra che egli così non è un artista o creatore originale, bensì soltanto un imitatore oppure un interprete, ossia in poche parole uno pseudo-artista („Scheinkünstler“) (il che poi conduce quindi nel dialogo successivo alla questione di come l’apparenza possa essere conosciuta in modo logico). Si tratta quindi della questione dei fondamenti. Non è lo stesso se si afferma qualcosa soltanto sulla
base del “sentito dire” (Hörensagen), se si fa appello ai titoli di prima pagina di un giornale scandalistico oppure a proprietà effettive di fatti confermate in vari studi.
Non è permesso delegare la dimostrazione (das Begründen = il fondare). Chi esprima un’opinione e attribuisca a essa una pretesa di validità, deve fare ciò da solo.

Non ci si può appellare a fonti qualsiasi e tralasciare o addirittura rifiutare il proprio controllo della qualità di tali fonti, come per esempio ha fatto Trump nelle sue accuse di spionaggio contro l’amministrazione Obama. Ma anche nel nuovo giornalismo, come ha recentemente osservato in modo critico Harald Martenstein, la parola ‘verità’ è diventata sinonimo di “opinione” (politica), come egli illustra in relazione al caso Relotius. La cosiddetta società del sapere riceve oggi da fuori una “disperata somiglianza con una società di fede”, per dirla con Dieter Simon (l’ex-presidente dell’Accademia delle Scienze di Berlino-Brandeburgo). I miti della verità e della pura razionalità, dell’obiettività, anche dell’indipendenza nella scienza, sono smontati con incomprensibile brutalità.

Che questo attacco ormai quasi quotidiano all’obiettività, che le Fake-News ormai onnipresenti sotterrino sempre più la nostra democrazia, è già stato affrontato a mo’ di ammonimento dalla grande Hannah Arendt. Nel suo saggio Verità e Politica la Arendt distingue tra verità di fatto (Tatsachen-Wahrheiten) e verità di ragione (Vernunft-Wahrheiten). Sono due tipi di verità che richiedono anche diversi criteri di validità. I fatti esulano dall’ambito dell’accordo e del consenso volontario,le opinioni sui fatti non contribuiscono al loro contenuto. Le verità di ragione
(Vernunftwahrheiten) sono i principi alla base delle nostre norme e dei nostri valori e si basano su fondamenti (Gründen) che vengono in primo luogo elaborati nel discorso socio-politico. Le verità di fatto e di ragione appartengono al regno politico, ma si comportano come il fuoco e l’acqua perché la verità sui fatti non può essere discussa pluralisticamente (la verità è dispotica, dice Hannah Arendt).

Attualmente, la messinscena mediatica tratta i fatti come se fossero opinioni sulle quali sia possibile una discussione pubblica (un buon esempio è il cambia mento climatico). La conseguenza è l’inclusione della differenza e quindi del fatto stesso: la trasformazione odierna nella politica e nella società va oltre la menzogna. Essa riguarda il nostro “ordine della conoscenza” (Wissensordnung), che a sua volta orienta il nostro agire (così Christina Schües). La nostra relazione con la realtà (Wirklichkeit) e il nostro senso dell’orientamento hanno bisogno di verità fattuale, essa ha bisogno del giudizio "vero" o "falso". Arendt scrive: "Laddove i fatti siano costantemente sostituiti da bugie e finzioni totali, si scopre che non c’è sostituto per la verità”. La verità è insostituibile. Se ora l’ordine della conoscenza, che deve orientare la società e i singoli umani, poggia solo su una diffusa pluralità di opinioni, che non possono essere ricondotte con argomenti né alla ragione né alle esperienze, allora la situazione è precaria. Oggi non stiamo solo vivendo la relativizzazione di spiacevoli dichiarazioni fattuali come semplici espressioni di opinione, valga l’esempio del cambiamento climatico, ma stiamo vivendo un attacco politico ai fatti, come per es. la manipolazione della storiografia da parte dei politici.
Per questo motivo si parla oggi di "un’epoca post-fattuale" („postfaktischen Zeitalter“). Il termine "post-fattuale” si riferisce a una cultura della discussione in cui i fatti - vale a dire qualcosa che accade - rivestono un ruolo nullo o minore come argomenti.

L’idea che non esista una verità oggettiva porta a un sospetto generale sulle élites. Il risultato è un generale sospetto contro la scienza, contri gli "esperti". L’ideale della scienza è la verità. Essa anela alla verità, all’irraggiungibile. Ma l’ideale è attualmente impallidito, perde amici e seguaci (così Dieter Simon). Alla fine si crea qualcosa di molto pericoloso: il livellamento totale di tutta la conoscenza e della non conoscenza ovvero la sensazione di perdita totale dei criteri di differenziazione.

Una società non può più funzionare se tale perdita si diffonde. La società si aspetta dalle scienze verità inconfutabili, sapere basato sull’evidenza contro bugie e mezze verità. Il ruolo della scienza cambia però con la società, secondo il sociologo di Monaco Armin Nassehi. Essa delude la speranza di un sapere fondato (begründbares) che sia stabile nel tempo e applicabile. La scienza non presenta più solo fatti. La delusione è grande quando la scienza non può fornire l’univocità necessaria per il processo decisionale politico o le strategie imprenditoriali. Non è certo una coincidenza che la filologia sia riscoperta a livello internazionale proprio nell’epoca delle fake news e della diplomazia di Twitter. L’indologo Sheldon Pollock vede in essa addirittura la base di ordinamenti liberali (vedi il piccolo opuscolo "Filologia e libertà", 2017). La scienza, in particolare la filosofia, non fornisce alla società solo risposte, ma anche le domande giuste. Essa è un tentativo di scoprire le cose in modo diverso rispetto a prima. Dobbiamo imparare a confrontarci con nuove questioni e chiederci innanzitutto cosa sia veramente accaduto, prima di giudicarlo politicamente, moralmente o economicamente. Un tale interrogarsi è oggi più urgente che mai. La verità, quindi, non è un problema inventato dai filosofi né è un problema accademico nel senso di sottigliezze teoriche, ma si presenta
piuttosto sempre di nuovo per ognuno in forma diversa come il problema della sopravvivenza (Lebensbewältigung = dominio sulla vita). La verità ha a che fare con la serietà della vita, anche la verità teorica.

La questione della verità nasce quindi da un interesse originario per l’affidabilità ed è una questione fondamentale della vita umana. Essa suona in modo preteoretico così: “Cos’è vero?” nel senso: "su cosa posso contare?". Proprio perciò si può a questo livello e quindi in primo luogo altrettanto correttamente parlare di un vero amico, una vera affermazione e un vero accadimento. La verità, intesa in questo modo, è ancora in anticipo rispetto alla differenziazione di teoria e pratica, di conoscenza e azione e permea tutti i rapporti alla vita. L’autenticità, quindi, come anche l’affidabilità si possono rinvenire nella forma dell’intuizione immediata, in cui s’incontrano il discorso della vera affermazione e tutti i "discorsi veritieri (seinswahrheitlichen)": ciò che è vero è fondato (come le affermazioni) o anche affidabile (per esempio nell’interazione umana). Per questo motivo la verità è una questione fondamentale della vita umana - e ciò nonostante noi, filosoficamente e teoricamente rivolti alla riflessione (potenzialmente con pretesa di verità), ci chiediamo cosa sia la verità.

In questa formulazione fondamentale si pone la questione della verità in tempi di crisi, cioè quando quel che sembrava affidabile si dimostra in senso radicale inaffidabile, quando dunque implode la visione della realtà (Wirklichkeitssicht) dell’epoca che ci unisce al di là delle differenze personali.

Proprio in un periodo come il nostro una riflessione filosofica sulla verità non è solo appropriata, ma estremamente attuale e indispensabile.

(Traduzone dal tedesco di Marco de Angelis, settemreb 2019)
 

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