MENU
RESOCONTO dell’INCONTRO DI LETTERATURA SPONTANEA del 16 febbraio 2024 a Monaco di Baviera su skype,

RESOCONTO dell’INCONTRO DI LETTERATURA SPONTANEA del 16 febbraio 2024 a Monaco di Baviera su skype,

RESOCONTO dell’INCONTRO DI LETTERATURA SPONTANEA del 16 febbraio 2024 a Monaco di Baviera su skype,
sponsorizzato da Società Dante Alighieri, Monaco di Baviera e.v.


   

   Ci siamo collegati in 7, di cui 1 da Middelfart (Danimarca) 4 dall’Italia e cioè da Roma, da Mercogliano (Avellino), da Sorso (Sassari), da Cogoleto (Genova) e 2 da qui da Monaco con provenienza da Napoli e da Roma:

- Così Annalisa, psichiatra  di Nuoro, ma da Mercogliano:

“La moglie di Pietro

 

Mi chiamo Luisa. Sono stata uccisa da mio marito Pietro.

Quanti anni siano passati non lo so, perché questo è un

mondo senza tempo. Per lui forse sono passati almeno

trent’anni. L’ho sposato perché lo amavo tanto, e anche lui

mi amava. Ci siamo conosciuti quando lui aveva appena

preso servizio come poliziotto del carcere del mio paese.

Pietro mi regalava tanti fiori, mi faceva le serenate alla

finestra anche dopo sposati e la domenica, se non era di

turno, mi aiutava anche a stendere i panni e cucinava.

Eravamo felici. Non abbiamo avuto figli perché mi ha

ucciso dopo soli due anni di matrimonio. Da circa un mese

era cambiato: aveva avuto un periodo di lavoro eccessivo,

erano in pochi e dovevano coprire troppi turni. Iniziai ad

accorgermi che guardava nel vuoto, come se vedesse

qualcosa o qualcuno muoversi; poi ascoltava e sembrava

che rispondesse a qualcuno che non vedevo. Un giorno

iniziò a dirmi che avevo un amante. Giurai e spergiurai

che non era vero, e infatti non lo era, perché io vedevo

solo lui, e lui era stato il mio primo e unico amore. Iniziò a

picchiarmi selvaggiamente, ma il suo viso era strano anche

mentre mi picchiava, non era il mio Pietro. Alla fine si

fermò come ascoltasse qualcosa, guardava a lato della

stanza. Aveva la pistola nella fondina perché era appena

rientrato, la prese e mi sparò un colpo al centro della

fronte.

Dicono che per morire si passa come in un tunnel, ed è

vero. Ma è un tunnel di luce, e c’è una quiete che non mi

aspettavo. Sono serena adesso come mai lo sono stata in

vita. A volte penso che Pietro mi dovrà raggiungere, ma so

che dal momento che questo è un mondo senza tempo, in

realtà Pietro è già qui.

Subito dopo l’omicidio Pietro ha iniziato a vagare per il

quartiere, dicendo cose incomprensibili e con il maglione

sporco del mio sangue.

La gente lo vedeva passare: alcuni

ridevano, altri ne avevano paura. Uno solo gli si è

avvicinato e gli ha chiesto cosa fosse successo, pensando

forse ad una caduta. Dai suoi discorsi sconnessi ha capito

che doveva essere successo qualcosa di grave, lo ha

calmato parlandogli con tranquillità e ha detto ad un amico

di chiamare la polizia. Poi è riuscito ad accompagnarlo a

casa e ha trovato me. Quasi sveniva.

Pietro è stato arrestato ma era chiaro che era impazzito: è

stato alcuni anni nell’ospedale psichiatrico giudiziario e

adesso vive in una struttura residenziale chiusa. Con gli

anni è ingrassato e ha assunto un’espressione serafica ma

sciocca; chiede continuamente medicinali attribuendovi

proprietà miracolose per ogni genere di disturbi. Dice di

essere figlio di Giuseppe Saragat e dice di chiamarsi

Fernando. Se qualcuno prova a ricordargli quello che è

capitato, dice che il protagonista di quella storia non è lui

ma un altro. Cammina avanti e indietro, non è più capace

di lavarsi bene e spesso ha gli indumenti macchiati. Non è

più il mio Pietro. Ma io sto qui, oltre il velo lui attende

senza saperlo che la sua vita terrena si concluda, e ogni

tanto mi incontra nei sogni e mi chiede... l’Alprazolam.”

 

Così Annalisa con sua madre Mariuccia:

Parte del saggio -La Sposa Orunese nella prima metà del 1900- ( per una ricerca scolastica organizzata dal liceo classico di Nuoro in collaborazione con l’università agli studi di Cagliari)

“Il primo augurio, sin dalla nascita, era: “A la bier ispossa!” (A vederla sposa!) Soprattutto per le donne, il matrimonio, allora, era un sicuro investimento dal punto di vista economico oltre che affettivo. Non esistevano, infatti, né pensioni sociali né case di riposo e le casalinghe solo con il lavoro del coniuge e dei figli potevano assicurarsi la sopravvivenza nella vecchiaia.

“Sor fizos sono tancas!” (I figli sono tanche!) cioè fonti di reddito sicure, diceva con orgoglio chi li aveva.

Ogni donna, fin dall’infanzia, sognava il matrimonio come vitale obiettivo da raggiungere.

Quando, il Sabato Santo, le campane annunciavano la Risurrezione di Cristo, tutte le fanciulle in frotta accorrevano nella più vicina campagna per smuovere le pietre e cercare lì sotto un presagio, un segno del loro destino di spose: chi trovava formiche avrebbe sposato un vaccaro, chi trovava ovetti bianchi o larve avrebbe sposato un pastore, chi trovava “un orchiddadile” (una forbicina) avrebbe sposato un sarto e così via perchè

ogni insetto o altro animaletto offriva spunto per dare una particolare interpretazione al proprio futuro. La gioia, a ricerca finita, era tanta, per il promettente auspicio, che ognuna si lasciava andare a far capriole (cuccurumbeddos) e a ruzzolare (loddurare) in discesa, sull’erba appena spuntata, fino a stancarsi.

Nella bella stagione, quando nel silenzio dei boschi si sentiva il canto del cuculo (su cuccu) non v’era bimba che non interpellasse il volatile sull’eventuale data delle proprie nozze:

“Cuccu bellu, Cuccu ‘e mare, cantos annor bi cheret a m’ispossare?” (Cuculo bello, Cuculo venuto dal mare, quanti anni mancano alle mie nozze?)

“Cu- cu, cu-cu, cu-cu, cu-cu....” Uno, due, tre, quattro.... o più anni, era la lusinghiera risposta che accendeva speranze e favoriva pensieri romantici.

Si attendeva con ansia il 24 Giugno, o meglio la notte di San Giovanni, per avere nei sogni, tutti da interpretare secondo usanza, conferme rassicuranti. Infatti chi, per esempio, sognava patate, avvolte nel grembiule (in sa cod’ ‘e s’ardeta) del proprio costume, poteva essere certa della sua maternità

futura. Inoltre, se con queste patate si ritrovava senza un perchè in un determinato luogo frequentato o di proprietà di un giovane celibe, “de unu bazzanu”, (o di qualche suo ascendente), proprio costui sarebbe stato il padre dei presagiti figli.

Non era raro sentire ragazze da marito cantare, con lo sguardo rivolto verso il santuario della Madonna di Gonare, un poco per gioco e un poco per scaramanzia:

“Nostra Sennora mea de Gonare, /azudadem’ a benne’ sa chipudda! /Menzur maridu malu chi non nudda / pro no istare chene cojubare. / Nostra Sennora mea de Gonare!” (Nostra Signora mia di Gonare, / aiutatemi a vendere le cipolle (giusto per creare la rima!)! /Meglio cattivo marito che niente /per non rimanere zitella. /Nostra Signora mia di Gonare! ). 

Oppure: “Abb’ a terra maridos, Deur meu! /Chi nos accudat una temporada! /Chi progat maridos a ispreu!

/Abb’ a terra maridos, Deur meu!” (Pioggia di mariti, Dio mio! /Che ci colga un temporale! /Che piova mariti in quantità! /Pioggia di mariti, Dio mio!).

Le mamme, e soprattutto le nonne, osservavano le fanciulle nel periodo della pubertà e leggevano nei loro comportamenti e nei loro gridi il loro desiderio d’amore.

“Est a grarios! Juchet su gran’ aularju !”, dicevano fra loro, un po’ divertite, un po’ preoccupate.

La frase è intraducibile se non alla lettera (E’ a gridi! Ha il chicco bugiardo!) ma perfettamente chiaro, per gli Orunesi, il suo significato: “Dietro i suoi gridi e le sue manifestazioni si nasconde la sua voglia di amare!”.

“Mammara, mammar’, achidemi bella / ca si m’ammoran annann’ a funtana, /unu chi juche’  berritta ‘e grana, /unu chi juche’ berritt’ ‘e istella! /Mammara, mammar’, achidemi bella!”

(Mamma, mamma, fatemi bella /in modo che si innamorino di me andando alla fonte, /uno che  porta copricapo di panno rosso, /uno che porta copricapo di stella! /Mamma, mamma, fatemi  bella!), sono versi che raccontano come il tramite galeotto per gli incontri d’amore poteva essere la  fonte o il ruscello dove le giovinette andavano ad attingere l’acqua o a lavare i panni e dove i  giovanotti facevano finta di passare per caso per ammirarle e per lanciar loro occhiate significative  (amiadas e zinnos, gesti e cenni) a volte corrisposte con imbarazzati abbassare di sguardi o con 

improvvisi rossori alle gote. 

In età matura erano le feste paesane che facevano incontrare i giovani (sor bazzanos e sar bazzanas, i celibi e le nubili) in cerca della futura metà e, in quelle circostanze, galeotte erano le strette di  mano durante il ballo tondo. Il maschio, incoraggiato anche dal più impercettibile segnale di  assenso, organizzava serenate d’amore “in bonu”, cioè dal contenuto gratificante per la donna,  insieme agli amici più fidati e componeva ( o si faceva comporre se lui non ne era capace) delicate  poesie da recapitare a “diossa” (l’amata dea). 

Ecco alcuni versi tratti da una dichiarazione d’amore di Predu Manza, izu de ziu Manzarrubba”  (Pietro Manza, figlio di signor Francesco Manza noto Manzarrubba), a una bella ragazza di Orune: 

“Jeo pesso a tibe, anima diletta, /e chin coro palpitante ti dimanno un istante /si pro ispossu  m’azzettas /ca jeo, oro luchente, /t’appo in coro, in s’anima, in sa mente. /In coro riserbada /ses sempes tu’ in mene /pro cussu cun ardore domannannet amore /t’arriba’ custa litter’ inattessa. /Si 

adattu non ti so’, /perdona su disturbu chi ti do’. /Ma tue, bell’ ermossura, /non sias cori dura /e  pro mi narre’s chi nono /bocchimi chin sa morte e ti perdono!” (Io penso a te, anima diletta, /e col cuore palpitante ti chiedo un istante /se per sposo mi accetti /perché io, oro lucente, /ti ho nel cuore, 

nell’anima e nella mente. /In cuore riservata /sei sempre tu in me /per questo con ardore domandandoti amore /ti arriva questa lettera inattesa. /Se adatto non ti sono, /perdona il disturbo che ti do. /Ma tu, bellissima, /non essere di cuore duro /e per dirmi di no /uccidimi con la morte e ti 

perdono!). 

Dopo questi preliminari si faceva di tutto per incontrare la donna dei desideri da sola, per la strada deserta sulla via della fonte o, meglio ancora, alla periferia del paese sulla via del ruscello. 

“T’appo zèniu! Si mi cheres, benzo a domo tua a ti dimannare” (Ti ho in simpatia! Se mi vuoi, vengo a casa tua a chiederti). Con queste brevi parole avveniva la dichiarazione d’amore. 

La donna se era ben disposta, scansandosi, rispondeva: 

“Jeo non n’isco! Narabil’ a babbu!”( Io non ne so! Digliel’ a babbo!). 

Se il pretendente (su pertenidore) si era solo illuso, la risposta, garbata ma ferma, era: “Non so’ pessann’ a cussas cossas! Ba’ in bonora!”( Non sto pensando a quelle cose! Vai in buon’ ora!).“

 

( continua...) Opera pubblicata

 

Grazie Annalisa!

 

 

- Così Antonio di Napoli, ma da qui da Monaco da “I maestri cantori di Napol” di Volker Helwing e Antonio Macrì:

Luigi Denza e Turco compongono la Canzone Funiculì Funiculà e…………

 

Il giorno dopo Denza la suona al pianoforte, Turco la canta, e il principe balla la Tarantella, il personale dell’hotel balla insieme a loro, e alla fine il coro dell’hotel canta la canzone a tutto il mondo. Il mondo l`accettò con entusiasmo, ad esempio l’editore milanese Ricordi la inserì nel suo programma, così come il famoso compositore tedesco Richard Strauss nel suo poema sinfonico "Dall’Italia".

 

Strauss crede che sia solo una canzone popolare. Errore fatale! Denza è intenzionato a condurre un processo di copyright che poi vince. Strauss deve pagargli le royalties per ogni esecuzione. "Funiculi" diventò subito un motivo molto popolare.

Un milione di copie in un anno (come 100 anni dopo il successo dei Beatles " Yesterday"!), e la funicolare incominciò a versare dividendi. E così nasce la classica canzone napoletana, la Canzone Napoletana d’Autore. Un nuovo genere! Per circa 80 anni, fino degli anni `60 del XX secolo, miriadi di canzoni in dialetto e forma classica entusiasmano e appassionano il mondo, e noi seguiamo le orme di questo fenomeno culturale con le nostre righe.

 

Questa montagna! Fino al 79 d.C. un mito! La terra intorno a lei suggerì che c’era qualcosa lì, era  terra vulcanica, ma nessun essere umano, nessun poeta aveva mai riferito, aveva mai saputo che si trattasse di un vulcano attivo. Ma nel 79 eruttò, il cielo su tutta la Campania si oscurò, terremoti (già nel 62 d.C.) una massa di lava e fumi mortali soffocarono tutta la vita a Pompei, Ercolano e dintorni, un evento che è stato interpretato come punizione (uno più tardi trovò il nome "Sodoma e Gomorra" scalfito in un edificio fatiscente.) La sibilla ebrea parlò di "una punizione per la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani. Un giorno del giudizio! Il giorno diventò notte! Le due città sono scomparse dalla faccia della terra per 15 secoli! Il caso le ha fatto ritrovare, quasi illese. Questo può essere ammirato sia a Pompei stesso come anche nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il MAN.

Le nostre conoscenze sull’antichità sono state immensamente arricchite dal tragico evento. Goethe, nel suo modo di parlare spesso un po’ sarcastico (ha scalato il Vesuvio tre volte) disse: "Nessuna catastrofe ha fatto tanto bene all’umanità quanto questa"! Beh, forse questo è davvero discutibile. Questa montagna ha rappresentato anche la fine dei miti. Il poeta e storico romano Tacito chiese a Plinio una relazione poco dopo il disastro. Suo zio, un noto filosofo e naturalista, comandante della flotta Romana stazionata a Miseno, corse in aiuto di conoscenti, ma anche per sete di conoscenza, a Stabia in barca e morì nell’inferno dell`eruzione... e suo nipote ha descritto tutto meticolosamente. Morì, ma il rapporto del nipote, che il giovane poi inviò a Tacito, divenne immortale, perché per la prima volta un’eruzione vulcanica fu descritta, accuratamente e scientificamente... e diversi miti sul Vesuvio furono sfatati. Per tutto il Medioevo la montagna è rimasta tranquilla, ci sono state eruzioni più piccole solo rumori, altrimenti nulla, fino all’anno 1631.

 

Ancora una volta, fu dimenticato che c’era un vulcano, la vegetazione lo copriva quasi fino alla cima, l’agricoltura arrivava molto in alto. Poi prima un terremoto, poi un’eruzione "come nel 79 d.C."! Più di 40.000 persone fuggirono, 4.000 morirono, e la storia del Vesuvio riprende con descrizioni, relazioni, documentazioni, attività accademiche. L’eruzione distrusse nuovamente le città, ad esempio Pompei ed Ercolano, Torre Annunziata e Torre del Greco quasi per metà. Ma c’era qualcos’altro in questa eruzione? La nascita di un altro mito! Ancora una volta, ci ricordiamo di una canzone che ci riporta al passato. Il nome della canzone è  Zazà:"Era la festa di San Gennaro".......San Gennaro!?

 

E ora inizia un miracolo napoletano, la madre di tutti i miracoli!! Questo ex vescovo di Benevento era stato decapitato nel 305 N.C. e  fu sepolto "nelle oscure catacombe" di Capodimonte. Quando il Vesuvio eruttò di nuovo nel 472 d.C., i napoletani fuggirono verso la tomba del martire. Tutto andò bene, ma da allora si è stabilito uno stretto legame tra loro e il santo! Questo è esattamente ciò che la chiesa ha fatto nel 1632 durante l’eruzione già descritta. C’era un flusso di lava che si dirigeva verso Napoli (i flussi di lava si dirigevano da secoli sempre verso ovest, verso il mare, e Napoli rimase sempre senza problemi). Immediatamente, il clero organizzò una processione popolare, cantando canti sacri, avvicinandosi alla lava, con in testa il cardinale poi il viceré, cantando  e dondolando il busto più bello di San Gennaro. Ed ecco: il flusso di lava si fermò (l`avrebbe fatto in ogni caso). I vescovi di Napoli sono sempre stati dei furbacchioni al limite della legalità. Ma ora Napoli aveva il suo santo patrono, e la Chiesa aveva una migliore presa sulla gente, una presa che divenne un’ossessione.”

 

- Grazie Antonio per queste tue illuminanti ricerche storiche, le canzoni napoletane diventano un pretesto.

 

 

 

- Così Gisella di Roma, ma da Middelfart,

 

-con -La laguna della calma-. Un botanico in cerca di una pianta rara, la “mangrovia bottoncino”, si fa accompagnare da un messicano, che gli darà una lezione di vita:

 

“Giovanni allontanò il viso dal mirino e si passò una mano sugli occhi stanchi. Guardò l’orologio: era su quella chiatta  da almeno tre ore, e non aveva ancora centrato l’obiettivo. Aveva fotografato centinaia di mangrovie bianche e rosse ma ancora nessuna mangrovia bottoncino. Stavano andando troppo piano. Si voltò verso il proprietario della barca, corrucciando la fronte e indicando l’orologio, sperando di far comprendere tutto il suo disappunto. Parlare sarebbe stato inutile: già prima, il messicano gli aveva fatto capire di non sentire, a causa del borbottio del motore fuoribordo.

Dopo altri minuti di caccia fotografica, sentì la barca rallentare; alzò lo sguardo e si rese conto che stavano puntando verso una baracca, in un punto dove la laguna si apriva verso il mare. Si sbracciò per richiamare l’attenzione del messicano che, per tutta risposta, gli fece il gesto del mangiare.

«E’ ora di pranzo, señor. Dieci minuti per un panino» urlò, un secondo prima di saltare sulla sabbia per tirare la barca in secca. Giovanni si sentì intrappolato, ma si impose di mantenere la calma, dicendosi che proseguire senza mangiare non sarebbe servito neanche a lui. Dopo l’ultimo sorso di birra, il proprietario della barca si stiracchiò, alzandosi, e andò a srotolare una cosa colorata. Giovanni capì che era un’amaca.

«Mezz’ora, señor, poi sarò da lei».

Giovanni si alzò di scatto, battendo le mani sul tavolo: «Non è possibile! Lei è troppo pigro!»

Il messicano, già sdraiato, rispose: «Non si tratta di pigrizia, señor, ma di sapersi godere la vita. Hasta luego».

Giovanni aprì la bocca per ribattere, ma l’altro già russava. Si allontanò con le mani in tasca borbottando, prendendosela con il messicano e con il mondo. Sferrò un calcio ad una conchiglia, ma sbagliò la mira, inciampò e cadde pesantemente. Mentre sputava sabbia, guardò davanti a sé: per poco non era franato sopra un annoso esemplare di mangrovia bottoncino.

Alle sue spalle, il messicano rideva, tenendosi la pancia.”

 

 

Il vecchio mare e il bambino: un racconto ambientato tra le dune del Mare del Nord, che mette in risalto il rapporto tra un anziano e suo nipote. La laguna della calma: un botanico in cerca di una pianta rara, la “mangrovia bottoncino”, si fa accompagnare da un messicano che gli darà una lezione di vita.

 

Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.”

 

E con –Il vecchio mare e il bambino-:

 

“Il vecchio camminava piano, un passo alla volta, le mani dietro la schiena. Era concentrato sui suoi piedi, li osservava per controllare che si posassero sulle parti più solide del sentiero, lì dove la sabbia si compatta un istante prima che cominci il basso tappeto di erica e salicornia.

Aveva lasciato la casa alle spalle, con la scusa che quella era l’ora perfetta per la sua passeggiata quotidiana – quieta e fresca, ma ancora ricca di luce e quindi sicura. In realtà, ne aveva abbastanza delle chiacchiere delle sue figlie, dischi rotti sui soliti problemi – mariti, lavoro, la bilancia. Voleva un momento per sé. Lui e il mare. Che però era lontano. Da casa non si vedeva.

Curvo come una tartaruga intraprese la scalata. Un’ultima collina di sabbia e sarebbe arrivato. Quella strada non aveva sorprese, l’aveva percorsa ogni giorno da quando era andato in pensione e si era ritirato a vivere lì, nel villaggio affollato d’estate e fantasma d’inverno. All’inizio non esisteva un percorso e superare l’ultima duna era faticoso e complicato, ma lui aveva vent’anni di meno e ce la faceva benissimo.

Poi, il viavai dei turisti e dei vacanzieri aveva schiacciato la sabbia e ucciso le piantine, e alla fine qualcuno dal Comune aveva deciso di spargere pezzettini di legno per sostenere i passi degli abitanti, la cui età media aumentava e aumentava.

«Nonno, ma si può sapere quando arriviamo? Mi hai promesso una sorpresa, ma secondo me qui non c’è niente, me l’hai detto solo per convincermi a uscire con te».

Il vecchio sorrise:

“Non è proprio così, figliolo”, pensò tra sè. “Quella paranoica di tua madre, mia figlia, ha paura perfino della sua stessa ombra, e ha aspettato fino al tuo sesto compleanno per farti finalmente mettere il naso fuori dalla città e portarti a casa mia, questo posto dannato pieno di pericoli mortali. Ha costretto sua sorella a lasciare i suoi bambini a casa col padre, non sia mai che tu possa sbucciarti un ginocchio giocando e divertendoti.

Adesso però ha preteso che ti portassi a passeggiare con me perché è preoccupata che tu trascorra troppo tempo a casa, al contrario di quello che le ha detto il dottore. Fosse stato per me, credimi, ti avrei lasciato fare lo stratacavolo del comodo tuo, e io sarei andato al mio appuntamento giornaliero con il mio amico mare. Lei però ha insistito e mi è toccato fare buon viso a cattivo gioco. Sgambetta, sgambetta pure quanto vuoi, ma rispetta il nostro patto: corri intorno a me ma non oltrepassarmi mai. Solo io conosco la strada per la sorpresa, e tu non puoi scoprirla senza il mio permesso”.

Invece disse:

«Devi avere ancora un po’ di pazienza. Il nonno non è veloce come te».

Una folata più forte, e la sabbia gli riempì le sopracciglia cispose. La spiaggia voleva giocare con lui come suo nipote voleva giocare con la sabbia, ma il vecchio non aveva la stessa fame di vita del bambino. Era come un goloso di fronte alla fetta di torta quasi finita: metteva piccolissime porzioni sul cucchiaino per farla durare il più possibile.

Due passi prima della cima prese il piccolo per mano.

«Chiudi gli occhi», gli disse. «Fidati di me».

Il ragazzino obbedì – sua madre diceva sempre che bisognava fare ciò che dicevano i grandi della famiglia – e si sforzò tanto per rimanere calmo accanto a quella persona che aveva un ritmo così diverso dal suo.

«Ascolta bene. Cosa senti?»

«Il vento che passa e la sabbia che si sposta».

«Ascolta meglio».

«I gabbiani».

«Ancora di più».

«Sento come se ci sta qualcuno, lontano, che respira come fai tu quando dormi».

«Apri gli occhi, ora».

Il bambino aprì gli occhi e spalancò la bocca per la meraviglia.

«Acqua… quanta acqua! Nonno, ma com’è possibile? Prima ho fatto la pipì sulla sabbia, ed è sparita in un istante tra i granelli! Questa, invece?»

Il vecchio rise.

«Questo è il mare del Nord, un mare che qualcuno chiama oceano, per quanto è grande. C’è troppa acqua per sparire tutta sotto la sabbia».

L’animo antico del vecchio amava quel panorama.

Il sole bianco, calante dietro le nuvole alte. I gabbiani, sazi dopo il pasto del pomeriggio, che galleggiavano senza conseguenze sul mare color metallo fuso. Il respiro millenario delle onde al largo, e l’energia giocosa delle onde verso riva.

Più in là, una coppia, mani nelle mani, si stava lasciando. Era la fine dell’estate. I loro visi erano tristi, ma gli occhi brillavano pensando a tutta la vita che avevano davanti.

Il vecchio si riscosse dai suoi pensieri: il nipote gli stava scuotendo la mano.

«Nonno, posso?»

«Vai, ma fermati prima dell’acqua. Non ti bagnare, sennò poi tua madre chi la sente?».

Sapeva che il nipote gli avrebbe dato retta: era il suo modo di esprimere gratitudine per il regalo ricevuto. Decise di non seguirlo: la discesa della duna non era facile, e non lo era nemmeno la risalita. Dalla cima della collina di sabbia guardò il bambino correre scomposto verso il basso, inciampare, cadere, rotolarsi ridendo nella sabbia fino ad arrivare al bagnasciuga, dove scoprì la bellezza di alzare schizzi d’acqua e di rincorrere le piccole onde di riva.

“Mia figlia mi ammazzerà”, pensò il vecchio soddisfatto.”

 

Grazie Gisella, per questi due tuoi espressivi ed ironici racconti.

 

 

- Così Anna di Genova, ma da Cogoleto:

Si tratta di due stralci tratti da un mio romanzo breve, in forma di diario, che copre un arco temporale di dieci giorni nei quali seguiamo le vicende, le sensazioni e le emozioni di Caterina - la protagonista. Per buona parte nell’isola di Stromboli:

 

“Attorno al piccolo spiazzo antistante la casa crescevano indisturbati canne e fichi d’India e un poco oltre - accanto ad un vecchio muro - un folto cespuglio di capperi.

 

…le 9…presto…tardi…ma che cosa significa?…sto nuotando in strati di tempo che attraverso in tutte le direzioni…tempo che scorre, impaziente…

…questi profumi, queste fragranze incomparabili di erbe, arbusti e cespugli che crescono spontanei…scogli  emergenti e rena nera scintillante di cristalli che trattengono le orme dell’eternità…la forza di un universo infinito, sconosciuto, della cui complessità anch’io faccio parte e in cui mi muovo…un grande presente elastico…

 

Il dolore antico che nasce dalla consapevolezza della precarietà della situazione umana, dell’inspiegabilità dell’esistenza, pareva volatilizzarsi in bellissimi giochi di luce fra i raggi del sole del mattino sul mare striato.

 

 

 

( Stromboli / Bar Roma)

Al tavolo erano seduti quattro uomini che giocavano a carte. Un po’ più indietro altri due stavano guardando la televisione: un vecchio film western che anche il ragazzo dietro il bancone seguiva attentamente.

A un altro tavolo sedeva Giuseppe, il pescatore con la barba da profeta che aveva ordinato  e aspettava pazientemente qualcosa da mangiare.

Caterina sentì su di sé gli sguardi di tutti, compresa l’occhiata curiosa ancorché senza pregiudizi di chi in quel momento stava scartando una carta che non gli serviva. 

………..

…………..

Dai discorsi dei giocatori di carte Caterina dapprincipio non riusciva a distinguere proprio nulla, vuoi perché erano tenuti in dialetto stretto stretto cui lei non era avvezza, vuoi perché gli argomenti stessi presupponevano conoscenze di persone e fatti che le erano sconosciuti.

Dopo un po’ di tempo però alcuni stralci della magra conversazione cominciarono ad emergere dal contesto rendendosi comprensibili. Era tutto un chiacchierare di chistu e chiddu, erano a volte briciole di saggezza quali passata la sissantina un duluri ogni matina,

o del tipo u letto é ’na gran cosa, si nun si dormi s’arriposa.

A volte invece erano parole che esprimevano la rassegnazione derivata da una situazione insulare accettata e inevitabile: fuori non si vidi picca e nenti…nun passa anima criata…”

 

Grazie Anna!

 

 

Così Alessandro di e da Sorso:

 

“Scoccano le dodici all’Harley Chapel, la chiesa Cristiano-Polacca di CheltenamRoad. Non mi lascia indifferente il suo richiamo. Osservo I fedeli succubi seguir la funzione. Succubi di tutte le loro istituzioni.

Anche io sono succube mio caro Dio, succube sono dell’eterna distanza che ci separa. Lo spazio temporale che racchiude a sé la vita e la morte brucia in coriandoli di spine mentre trascendo e senza limite mi accendo e mi inoltro al tuo cospetto.

La vita è un’assurda corsa a chi posiziona il proprio culo più in alto, e tu, tu sei il tiranno che mi ha imprigionato qua giù, sigillato, costretto in questo corpo limitato e limitante, ma hai fatto un errore: perduto nell’estetica più spicciola hai privato la mia mente di confini, e così ho deciso di non morire. Non esiste suicidio, vergogna o prigione che possa incatenarmi. Continuerò a volare nelle dimensioni create dalla mia mente, e tu Dio, in quella dimensione non potrai far niente. Li io sono Dio. E lo sarò, Dio, in ogni mia immaginazione. Non condividerò questa mia prigione con nessuno. Perciò vattene al diavolo e lasciami sognare!

La luce riflessa dei mosaici colpiva le anziane ombre vestite di lutto. Genuflesse recitavano salmi dinanzi al cristo insanguinato. La fede era per loro un chiodo rovente sul crocefisso della vita.

Il solstizio d’estate, la memoria dilata il tempo e il ricordo dirompe rigoglioso.

Socchiusi gli occhi ai barboni della piazza.

Imbroglioni, scaltri, traditori, fannulloni, amanti del gioco… sono sempre stato affascinato da chi con un trucco ti fa balneare l’idea che la vita potrebbe essere più gratificante di quanto sia. La musica e la letteratura, per uno squallido bohemien come me erano linfa inestinguibile dove abbeverare il tormento della mia fantasia. Con le parole cesellavo riflessioni che mi permettevano di interpretare e di essere qualcun altro. Un clochard mi chiese una sigaretta. Il suo compare di bevute pisciava sul muretto. Sorrisi alla sventura.

Travolto da schizzi sui muri intravidi un Bansky, è un Cristo in croce capovolto, è Gloucester road ma la superficie di questo muro è ruvida come l’altare di Stonehenge. Ricercavo il gusto del sacro sfuggente veniva svelato soltanto la notte durante gli amplessi vigorosi di molteplici virtù. Una passante mordeva una mela e io diventavo più duro.

Si un duro…

Godevo della fama del Don Giovanni, una fama alquanto ridicola. Lacrime amare nelle diecimila notti passate al buio della mia stanza. Leggevo i padri della generazione beat:

Allen Ginsberg, Gregory Corso, John Fante e Kerouac.

Fui da loro rivoltato, inoltrato su orizzonti sconosciuti. Ubriaco brindavo alla solitudine di una candela. Mettevo in scena la distruzione del mio avvenire.

Desideravo la vita dell’avventuriero, camminare laddove gli uomini hanno paura. Sconfiggere la solitudine e la menzogna che nell’animo mio albergava. Vagare come i ribelli d’un tempo, su strade acciottolate di un novembre piovoso. Bristol era elegante nel suo grigiore.

Bedminster e le colonne gotiche, pietra e muschio sotto il crocefisso sopra l’altare.

Ricercavo la domenica santa in una poesia. La fila fuori dalla caritas. Mezze penne al pomodoro, peperoni grigliati e un filone di pane da spezzare col fratello di fianco. Sole allo zenit e respiravo miseria mentre un border collie riposava quieto all’ombra del ginepro in fiore aspettando il padrone che di fame per la strada va a mendicare.

Ed io, sotto questo cielo vivido di silenzio, sotto un sole spremuto su di una tavolozza di colori, sono il menzognero mascherato da Dio inopportuno. Striscio in una platea di applausi e fischi, tra strati di detriti chiamati incomprensioni, vane illusioni, presuntuosa superficialità distorta, consapevole che anche le buone intenzioni (come le cattive) possono angustiare un anima se mancano di comprensione.

 

Venni assunto in un risto-pub su King street, dinanzi al teatro. Il Beer Emporium era un locale storico dal soffitto basso con due ampie sale divise da un arco di pietra. Il caffè era di pessimo gusto, infinite le tipologie di birre, spillate ben oltre il bordo dei boccali. Questa consuetudine tutta inglese rendeva il bancone e il pavimento appiccicoso e maleodorante. Era un locale frequentato da giovani amanti della disco e da pederasti amanti di quei giovani musicisti e dei nudi appesi senza gusto alle pareti. La birra costava poco e l’aria puzzava di vecchio. Come barista non ero un granché. Dopo poche ore, Salv, il proprietario del locale, mi rinchiuse nella plonge (lo stanzino dove venivano risciacquati i bicchieri). “Qui dentro farai meno danni Jedd” disse, pentito di avermi assunto. Ah che uomo quel Salv. Salv, l’italiano che cambiò il suo destino. Salv, pelatone con la fronte madida di sudore. Salv, l’emigrato che dimenticò le sue radici. Avvertivo disprezzo nei suoi occhi da lupo. Che uomo quel Salv, lui sì che menava le mani e non perdeva tempo con la macchina da scrivere. “Hei disgraziato, a lavoro si viene coi calzini!”, mi riprendeva indignato, indicando col dito la strisciolina di pelle bruna, che si intravedeva tra l’orlo dei miei pantaloni e le scarpe. “Hei disgraziato, questi bicchieri non sono stati asciugati a dovere”. Come un sommelier ondeggiava il bicchiere contro luce, mostrandomi, a riprova delle sue ragioni, l’acqua calcarea, che ne opacizzava il vetro. Le settimane passavano, ma Salv, occhi di lupo, non smetteva di tormentarmi. “Hei disgraziato, hei disgraziato, hey disgraziato!”. Finì col dimenticare il mio nome ed io di rimando sopravvivevo alla vita. Arrivò il natale. Io, il grande scrittore, con coraggio portavo in alto il nome glorioso di tutti i lava bicchieri. Io, il grande scrittore, posata la penna, diventai ben presto un esperto di detergenti e strofinacci. Solo nubi all’orizzonte. Nubi sotto le stelle. Escoriazioni alle dita dovute al contatto coi detergenti e pressione a sessanta scarsi, confidavo sulla giovane età, recitando l’omelia d’ogni mattino. “salv ti uccido”. Poi ci ripensavo e concentrandomi sul romanzo mi ripromettevo, che ben presto nessuno più avrebbe osato maltrattarmi. L’ira funesta, la strage che nella nebbia scompare. Un accrocco sulla via del marciume. Questo era il mio romanzo. Semplicemente non esisteva. Dalla nebbia niente si dissipava. D’altronde mi piaceva la ketamina. Una volta vedetti come la morte arriva. Non si può spiegare. La sostanza corporea, così come la coscienza, era ormai superflua e poi tutto nero. Ed io non esistevo. Mi ritrovai su di un groviglio di lenzuola sudate, colori alle pareti offuscati. Sentivo ancora la dose di ketamina in circolo. La ragione ebbe la meglio sul mio equilibrio. Riuscì a sedermi con difficoltà. Vedevo i binari della mia vita nascondersi fugaci dietro l’orizzonte, laddove tra le fiamme il ghigno di Salvatore mi continuava a perseguitare. “Hei bellino”, una voce grezza di diamante mi chiamava dalle profondità del letto. Maria, terribile olezzo, era la troia tossica del quartiere. Puzzava di culo ed alcool. Nonostante i suoi occhi giallastri e il candore del viso, non era bella. Cantava i mantra di Shiva quasi posseduta e col suo accento rumeno sceglieva lei dove farmi venire.“Non svenire sul letto, e ricordati di pagare” la sentii brontolare. Osservai la camera. La parete alle mie spalle, dietro il letto, era tappezzata di vecchi acquerelli su carta. Vecchie divinità, che riscoprivano i piaceri del sesso. Falli e vagine di ogni dimensione e versi di poesia pornografica. Con un gesto crudele delle dita strappai tutte le immagini dalla parete. Presi dalla tasca dei pantaloni, addormentati di fianco al letto, un biglietto da cinquanta sterline e una penna bic commerciale. Ci scrissi sopra dei versi, spacciandoli per miei. “Il cuore”, trattenni il respiro e proclamai con enfasi,“prima chiede gioia, poi assenza di dolore, poi quegli scialbi annodini, che attenuano il soffrire, poi chiede il sonno, e infine, se a tanto consentisse il suo tremendo giudice, libertà di morire”. Erano versi di Emily Dickinson, Maria terribile olezzo non lo sapeva, assuefatta così com’era dai suoi piaceri. Occhi spenti e pilo erezione, assaporava l’immortale bellezza delle parole, credendole mie. “Sei un grande scrittore”, ansimava, tartassandosi la passera con due dita. Appallottolai la banconota e la lanciai sopra quella creatura (immonda) maleodorante. Mi rivestì, mentre lei eccitata bagnava tutto il letto. “ritornerai?

Mi lasciai alle spalle quel girone infernale di ruffiani e seduttori. Old market profumava di tapas la mattina. Era terminato l’effetto della ketamina, ero un firmamento senza stelle. Asfalto nero sulla strada del mattino.”

Grazie Alessandro. Sono contento che ora tu sia invece ritornato in Sardegna!

 

- Guido di Lioni, ma da Roma, ci ha mandato questo suo testo –Carne sintetica, quello che arriverà sulle nostre tavole-. Il testo è sulla pagina di letteratura spontanea skype.

 

Grazie Guido di essere con noi.

 

 

- Io di Roma, ma da qui da Monaco, ho letto altre poesie dal mio piccolo libro "Un soldato da solo". Per cercare di farne capire meglio il senso ai partecipanti assenti al precedente incontro, ho poi più o meno così accennato ancora una volta agli antecedenti ed al contesto nei quali le ho scritte:

  

   "In realtà io sono un po’ un reduce del ’68 e degli anni seguenti. Allora ero all’Università a Roma, facoltà di Giurisprudenza. Quelli erano anni di grandi cambiamenti. Una società strutturata per organizzare un numero limitato di persone si ritrovava all’improvviso a doverne organizzare un numero infinitamente superiore, con il boom delle nascite del dopo guerra. Furono anni di rivolte, di occupazioni, di bombe vere, di attentati, di pestaggi e di depistaggi.

   Ricordo che la nostra fu la sola facoltà occupata dai fascisti, che la stampa allora chiamava "nazi-maoisti". In tutte le altre facoltà invece c’era il movimento studentesco vero. Io ero una matricola. Capivo poco di tutto quello che mi succedeva attorno, ma abbastanza per capire di star vivendo anni irripetibili.

   A fare un po’ di ordine vennero per fortuna un giorno in facoltà alcuni giudici ed avvocati democratici, che per la prima volta ci parlarono in una lingua comprensibile ed ispirante fiducia. Alcuni di noi, 7 per la verità, presero la palla al balzo. Ognuno si scelse il suo giudice o avvocato e si offrì come suo generico e volontario aiutante. Io me ne scelsi addirittura due, il giudice Aldo Vittozzi e l’avvocato Edoardo Di Giovanni.

   Il filo sottile da seguire era per noi quello di mantenere un minimo di legalità tra le contrapposizioni studenti-polizia. E questo filo si spezzò più e più volte in più parti.

   Poi vennero gli anni del riflusso. Il movimento era andato troppo avanti e si era poi trovato isolato e stava tornando indietro. Io intanto avevo già dato 16 esami, anche se per la verità non tutti brillantissimi. Decisi allora di fare il servizio militare allora obbligatorio, per prendere tempo.

   A quel tempo giocavo a calcio in una squadra, la Tibur, di un quartiere vicino. Il mio allenatore mi disse di conoscere il Maresciallo dell’Aviazione che faceva le designazioni delle sedi degli avieri. Se avessi voluto, dopo il CAR avrei facilmente potuto restare a Roma e continuare a giocare nella nostra squadra.

   Durante il riflusso i sogni degli ideali avevano pericolosamente cominciato a vacillare, specie quello di essere trattati tutti allo stesso modo, senza preferenze. Un po’ mi vergognai, però finii per accettare. Rimasi a Roma e continuai a giocare al calcio. Ma poi fui per questo punito.

   Mi mandarono al Ministero dell’Areonautica, tra l’Università e la Stazione Termini, alle Segreteria del Generale Cavalera. Sapevo battere a macchina e questo allora bastava ed avanzava. Ero addetto alla sua corrispondenza.

   La sua corrispondenza era quasi tutta del tipo: "A seguito di analoghe premure da me ricevute, si prega di assegnare il tal aviere alla tale sede da lui desiderata. Intanto rimango a disposizione per  eventuali necessità da parte sua, firmato in genere da Andreotti, allora mi sembra Presidente del Consiglio dei Ministri o da Lattanzi, allora Ministro della Difesa.." Erano raccomandazioni in fondo come la mia, ma loro erano pubblici ufficiali!

   Io fotocopiavo e passavo tutto ai miei collegamenti con quello che era rimasto del movimento studentesco. Anche in caserma poi, se per esempio la figlia del Maresciallo si doveva sposare, il padre veniva nominato responsabile della mensa, per il tempo necessario a poterle dare una dote, con parte dei soldi destinati invece al vitto degli avieri. Io diedi da analizzare ai chimici del movimento il vino che ci davano: acqua e polverine.

   Fu così che dopo un paio di mesi, tornando una sera in caserma dalla libera uscita, l’ufficiale di picchetto mi consegnò una lettera. Era il mio trasferimento immediato ad Ortanova (Foggia). I servizi militari di informazione, anche se non esattamente velocissimi, avevano finalmente capito che io non ero esattamente la persona più adatta a stare nella Segreteria particolare del Generale Cavalera.

   Dal frastuono romano passai quindi all’isolamento in campagna. Non avrei mai creduto di essere così pericoloso, da far arrivare loro a tanto.

 

Terza impressione

 

È talmente grande questa pianura che

sud tuona buio

nord è un’isola di luce (Monte Sant’Angelo)

a ovest triangoli a fasci di neon

a est il paesaggio è sereno, gli alberi in fila

Qui sopra

una grondaia otturata

mi spacca il cervello

 

Temporale di notte

 

In fondo la paura

buia di tuoni e vento

la crepa di un lampo

precisa e lucente

ai lati bagliori

che tendono botti

ma gli alberi si piegano al vento

 

Il tran tran

 

I colori della sera

quelli no

quelli sono sempre nuovi

promessa diversa

mai ancora mantenuta

bugia quotidiana

 

Un soldato da solo

 

Che strano posto hanno scelto per vivere i cani dell’aeroporto

Se l’hanno fatto per gli aerei poi

non ne vedranno neppure uno

mai una donna

mai un bambino

mai un passeggio in un giorno di festa in paese

e penseranno che la vita sia questa

una pianura di stoppie e asfalto

e che l’orizzonte sia la rete

e che la terra sia senza mare

senza alberi

senza colline

Ma è meglio non continuare a pensare

quello che i cani pensano.

Qui

è proprio questo

che vogliono.

 

Quarta impressione

 

Sta cambiando il tempo

e non promette niente di buono

il cielo è ancora sereno

un poco di vento

ma c’è foschia

un cucciolo gioca

un cane mangia

vento dell’est

sole sciapo

pochi colori

tutti uguali

 

I cani e la stella

 

C’è colla luna una stella stasera

si rotolano i cani nell’erba

con baci di morsi

tutto il giorno si sono rincorsi

ed ora

ora c’è colla luna una stella stasera

 

Quinta impressione

 

È notte

sento ancora zappare il contadino

 

Cuccioli e cani

 

Secondo me

anche a prescindere dall’altezza

si capirebbe poi uguale

chi è ancora cucciolo

e chi è già cane

Si capirebbe facilmente dalle mosse

da chi gioca coi lacci

da chi lecca per primo

e da chi tenta di saltarti agli occhi

da chi sembra un coniglio

e da chi nasconde subito l’osso

da chi in casa è padrone

e da chi ci sta sugli spilli

da chi sta sempre con me

e da chi viene solo all’ora di cena

da chi ruba per gioco

e chi per gran fame

uno ha la lingua dolce

l’altro molto meno.

 

 

Tra cani

 

Quando il gioco si fa pericoloso

allora il più piccolo

si sdraia per terra

e nasconde il muso

Ricordo che da bambino

in questi casi

io dicevo „pace!“

 

Scorcio

 

I cani rincorrono le rondini

ma su piani diversi

Un cucciolo scava una zolla

misteriosa

ed io?

 

Sesta impressione

 

Nuvole di lanterne

di arance

di fumo

di rose

di lividi

Prima i colori cavalcano il cielo

poi convergono in quella buccia d’arancia

in quel fiocco di neve

Ora

sono ricoperti di morte

che pian piano

ha la meglio

 

Settima impressione

 

Lei

secondo me la luce

non se ne andrebbe mai

È il fumo che la copre

Dagli ultimi fiocchi

si vede bene

che sopra è ancora oggi

o tutt’al più

domani”

 

Grazie!
Un caro saluto e a presto

giulio
ps.. Chi può e chi riconosce l’importanza formativa di questa iniziativa, senza fini di lucro e che dura ormai da 24 anni, può anche un po’ sostenerla economicamente con un versamento sul c.c.  HypoVereinsbank, giulio bailetti, Kontonummer 6860168020, Bankleitzahl 70020270, IBAN DE69700202706860168020, BIC HYVEDEMMXXX oppure sul mio Paypal: paypalme/letteraturaspontanea  Grazie, comincio a diventare vecchio e ve ne sarei molto grato!

 


   

   Ci siamo collegati in 7, di cui 1 da Middelfart (Danimarca) 4 dall’Italia e cioè da Roma, da Mercogliano (Avellino), da Sorso (Sassari), da Cogoleto (Genova) e 2 da qui da Monaco con provenienza da Napoli e da Roma:

- Così Annalisa, psichiatra  di Nuoro, ma da Mercogliano:

“La moglie di Pietro

 

Mi chiamo Luisa. Sono stata uccisa da mio marito Pietro.

Quanti anni siano passati non lo so, perché questo è un

mondo senza tempo. Per lui forse sono passati almeno

trent’anni. L’ho sposato perché lo amavo tanto, e anche lui

mi amava. Ci siamo conosciuti quando lui aveva appena

preso servizio come poliziotto del carcere del mio paese.

Pietro mi regalava tanti fiori, mi faceva le serenate alla

finestra anche dopo sposati e la domenica, se non era di

turno, mi aiutava anche a stendere i panni e cucinava.

Eravamo felici. Non abbiamo avuto figli perché mi ha

ucciso dopo soli due anni di matrimonio. Da circa un mese

era cambiato: aveva avuto un periodo di lavoro eccessivo,

erano in pochi e dovevano coprire troppi turni. Iniziai ad

accorgermi che guardava nel vuoto, come se vedesse

qualcosa o qualcuno muoversi; poi ascoltava e sembrava

che rispondesse a qualcuno che non vedevo. Un giorno

iniziò a dirmi che avevo un amante. Giurai e spergiurai

che non era vero, e infatti non lo era, perché io vedevo

solo lui, e lui era stato il mio primo e unico amore. Iniziò a

picchiarmi selvaggiamente, ma il suo viso era strano anche

mentre mi picchiava, non era il mio Pietro. Alla fine si

fermò come ascoltasse qualcosa, guardava a lato della

stanza. Aveva la pistola nella fondina perché era appena

rientrato, la prese e mi sparò un colpo al centro della

fronte.

Dicono che per morire si passa come in un tunnel, ed è

vero. Ma è un tunnel di luce, e c’è una quiete che non mi

aspettavo. Sono serena adesso come mai lo sono stata in

vita. A volte penso che Pietro mi dovrà raggiungere, ma so

che dal momento che questo è un mondo senza tempo, in

realtà Pietro è già qui.

Subito dopo l’omicidio Pietro ha iniziato a vagare per il

quartiere, dicendo cose incomprensibili e con il maglione

sporco del mio sangue.

La gente lo vedeva passare: alcuni

ridevano, altri ne avevano paura. Uno solo gli si è

avvicinato e gli ha chiesto cosa fosse successo, pensando

forse ad una caduta. Dai suoi discorsi sconnessi ha capito

che doveva essere successo qualcosa di grave, lo ha

calmato parlandogli con tranquillità e ha detto ad un amico

di chiamare la polizia. Poi è riuscito ad accompagnarlo a

casa e ha trovato me. Quasi sveniva.

Pietro è stato arrestato ma era chiaro che era impazzito: è

stato alcuni anni nell’ospedale psichiatrico giudiziario e

adesso vive in una struttura residenziale chiusa. Con gli

anni è ingrassato e ha assunto un’espressione serafica ma

sciocca; chiede continuamente medicinali attribuendovi

proprietà miracolose per ogni genere di disturbi. Dice di

essere figlio di Giuseppe Saragat e dice di chiamarsi

Fernando. Se qualcuno prova a ricordargli quello che è

capitato, dice che il protagonista di quella storia non è lui

ma un altro. Cammina avanti e indietro, non è più capace

di lavarsi bene e spesso ha gli indumenti macchiati. Non è

più il mio Pietro. Ma io sto qui, oltre il velo lui attende

senza saperlo che la sua vita terrena si concluda, e ogni

tanto mi incontra nei sogni e mi chiede... l’Alprazolam.”

 

Così Annalisa con sua madre Mariuccia:

Parte del saggio -La Sposa Orunese nella prima metà del 1900- ( per una ricerca scolastica organizzata dal liceo classico di Nuoro in collaborazione con l’università agli studi di Cagliari)

“Il primo augurio, sin dalla nascita, era: “A la bier ispossa!” (A vederla sposa!) Soprattutto per le donne, il matrimonio, allora, era un sicuro investimento dal punto di vista economico oltre che affettivo. Non esistevano, infatti, né pensioni sociali né case di riposo e le casalinghe solo con il lavoro del coniuge e dei figli potevano assicurarsi la sopravvivenza nella vecchiaia.

“Sor fizos sono tancas!” (I figli sono tanche!) cioè fonti di reddito sicure, diceva con orgoglio chi li aveva.

Ogni donna, fin dall’infanzia, sognava il matrimonio come vitale obiettivo da raggiungere.

Quando, il Sabato Santo, le campane annunciavano la Risurrezione di Cristo, tutte le fanciulle in frotta accorrevano nella più vicina campagna per smuovere le pietre e cercare lì sotto un presagio, un segno del loro destino di spose: chi trovava formiche avrebbe sposato un vaccaro, chi trovava ovetti bianchi o larve avrebbe sposato un pastore, chi trovava “un orchiddadile” (una forbicina) avrebbe sposato un sarto e così via perchè

ogni insetto o altro animaletto offriva spunto per dare una particolare interpretazione al proprio futuro. La gioia, a ricerca finita, era tanta, per il promettente auspicio, che ognuna si lasciava andare a far capriole (cuccurumbeddos) e a ruzzolare (loddurare) in discesa, sull’erba appena spuntata, fino a stancarsi.

Nella bella stagione, quando nel silenzio dei boschi si sentiva il canto del cuculo (su cuccu) non v’era bimba che non interpellasse il volatile sull’eventuale data delle proprie nozze:

“Cuccu bellu, Cuccu ‘e mare, cantos annor bi cheret a m’ispossare?” (Cuculo bello, Cuculo venuto dal mare, quanti anni mancano alle mie nozze?)

“Cu- cu, cu-cu, cu-cu, cu-cu....” Uno, due, tre, quattro.... o più anni, era la lusinghiera risposta che accendeva speranze e favoriva pensieri romantici.

Si attendeva con ansia il 24 Giugno, o meglio la notte di San Giovanni, per avere nei sogni, tutti da interpretare secondo usanza, conferme rassicuranti. Infatti chi, per esempio, sognava patate, avvolte nel grembiule (in sa cod’ ‘e s’ardeta) del proprio costume, poteva essere certa della sua maternità

futura. Inoltre, se con queste patate si ritrovava senza un perchè in un determinato luogo frequentato o di proprietà di un giovane celibe, “de unu bazzanu”, (o di qualche suo ascendente), proprio costui sarebbe stato il padre dei presagiti figli.

Non era raro sentire ragazze da marito cantare, con lo sguardo rivolto verso il santuario della Madonna di Gonare, un poco per gioco e un poco per scaramanzia:

“Nostra Sennora mea de Gonare, /azudadem’ a benne’ sa chipudda! /Menzur maridu malu chi non nudda / pro no istare chene cojubare. / Nostra Sennora mea de Gonare!” (Nostra Signora mia di Gonare, / aiutatemi a vendere le cipolle (giusto per creare la rima!)! /Meglio cattivo marito che niente /per non rimanere zitella. /Nostra Signora mia di Gonare! ). 

Oppure: “Abb’ a terra maridos, Deur meu! /Chi nos accudat una temporada! /Chi progat maridos a ispreu!

/Abb’ a terra maridos, Deur meu!” (Pioggia di mariti, Dio mio! /Che ci colga un temporale! /Che piova mariti in quantità! /Pioggia di mariti, Dio mio!).

Le mamme, e soprattutto le nonne, osservavano le fanciulle nel periodo della pubertà e leggevano nei loro comportamenti e nei loro gridi il loro desiderio d’amore.

“Est a grarios! Juchet su gran’ aularju !”, dicevano fra loro, un po’ divertite, un po’ preoccupate.

La frase è intraducibile se non alla lettera (E’ a gridi! Ha il chicco bugiardo!) ma perfettamente chiaro, per gli Orunesi, il suo significato: “Dietro i suoi gridi e le sue manifestazioni si nasconde la sua voglia di amare!”.

“Mammara, mammar’, achidemi bella / ca si m’ammoran annann’ a funtana, /unu chi juche’  berritta ‘e grana, /unu chi juche’ berritt’ ‘e istella! /Mammara, mammar’, achidemi bella!”

(Mamma, mamma, fatemi bella /in modo che si innamorino di me andando alla fonte, /uno che  porta copricapo di panno rosso, /uno che porta copricapo di stella! /Mamma, mamma, fatemi  bella!), sono versi che raccontano come il tramite galeotto per gli incontri d’amore poteva essere la  fonte o il ruscello dove le giovinette andavano ad attingere l’acqua o a lavare i panni e dove i  giovanotti facevano finta di passare per caso per ammirarle e per lanciar loro occhiate significative  (amiadas e zinnos, gesti e cenni) a volte corrisposte con imbarazzati abbassare di sguardi o con 

improvvisi rossori alle gote. 

In età matura erano le feste paesane che facevano incontrare i giovani (sor bazzanos e sar bazzanas, i celibi e le nubili) in cerca della futura metà e, in quelle circostanze, galeotte erano le strette di  mano durante il ballo tondo. Il maschio, incoraggiato anche dal più impercettibile segnale di  assenso, organizzava serenate d’amore “in bonu”, cioè dal contenuto gratificante per la donna,  insieme agli amici più fidati e componeva ( o si faceva comporre se lui non ne era capace) delicate  poesie da recapitare a “diossa” (l’amata dea). 

Ecco alcuni versi tratti da una dichiarazione d’amore di Predu Manza, izu de ziu Manzarrubba”  (Pietro Manza, figlio di signor Francesco Manza noto Manzarrubba), a una bella ragazza di Orune: 

“Jeo pesso a tibe, anima diletta, /e chin coro palpitante ti dimanno un istante /si pro ispossu  m’azzettas /ca jeo, oro luchente, /t’appo in coro, in s’anima, in sa mente. /In coro riserbada /ses sempes tu’ in mene /pro cussu cun ardore domannannet amore /t’arriba’ custa litter’ inattessa. /Si 

adattu non ti so’, /perdona su disturbu chi ti do’. /Ma tue, bell’ ermossura, /non sias cori dura /e  pro mi narre’s chi nono /bocchimi chin sa morte e ti perdono!” (Io penso a te, anima diletta, /e col cuore palpitante ti chiedo un istante /se per sposo mi accetti /perché io, oro lucente, /ti ho nel cuore, 

nell’anima e nella mente. /In cuore riservata /sei sempre tu in me /per questo con ardore domandandoti amore /ti arriva questa lettera inattesa. /Se adatto non ti sono, /perdona il disturbo che ti do. /Ma tu, bellissima, /non essere di cuore duro /e per dirmi di no /uccidimi con la morte e ti 

perdono!). 

Dopo questi preliminari si faceva di tutto per incontrare la donna dei desideri da sola, per la strada deserta sulla via della fonte o, meglio ancora, alla periferia del paese sulla via del ruscello. 

“T’appo zèniu! Si mi cheres, benzo a domo tua a ti dimannare” (Ti ho in simpatia! Se mi vuoi, vengo a casa tua a chiederti). Con queste brevi parole avveniva la dichiarazione d’amore. 

La donna se era ben disposta, scansandosi, rispondeva: 

“Jeo non n’isco! Narabil’ a babbu!”( Io non ne so! Digliel’ a babbo!). 

Se il pretendente (su pertenidore) si era solo illuso, la risposta, garbata ma ferma, era: “Non so’ pessann’ a cussas cossas! Ba’ in bonora!”( Non sto pensando a quelle cose! Vai in buon’ ora!).“

 

( continua...) Opera pubblicata

 

Grazie Annalisa!

 

 

- Così Antonio di Napoli, ma da qui da Monaco da “I maestri cantori di Napol” di Volker Helwing e Antonio Macrì:

Luigi Denza e Turco compongono la Canzone Funiculì Funiculà e…………

 

Il giorno dopo Denza la suona al pianoforte, Turco la canta, e il principe balla la Tarantella, il personale dell’hotel balla insieme a loro, e alla fine il coro dell’hotel canta la canzone a tutto il mondo. Il mondo l`accettò con entusiasmo, ad esempio l’editore milanese Ricordi la inserì nel suo programma, così come il famoso compositore tedesco Richard Strauss nel suo poema sinfonico "Dall’Italia".

 

Strauss crede che sia solo una canzone popolare. Errore fatale! Denza è intenzionato a condurre un processo di copyright che poi vince. Strauss deve pagargli le royalties per ogni esecuzione. "Funiculi" diventò subito un motivo molto popolare.

Un milione di copie in un anno (come 100 anni dopo il successo dei Beatles " Yesterday"!), e la funicolare incominciò a versare dividendi. E così nasce la classica canzone napoletana, la Canzone Napoletana d’Autore. Un nuovo genere! Per circa 80 anni, fino degli anni `60 del XX secolo, miriadi di canzoni in dialetto e forma classica entusiasmano e appassionano il mondo, e noi seguiamo le orme di questo fenomeno culturale con le nostre righe.

 

Questa montagna! Fino al 79 d.C. un mito! La terra intorno a lei suggerì che c’era qualcosa lì, era  terra vulcanica, ma nessun essere umano, nessun poeta aveva mai riferito, aveva mai saputo che si trattasse di un vulcano attivo. Ma nel 79 eruttò, il cielo su tutta la Campania si oscurò, terremoti (già nel 62 d.C.) una massa di lava e fumi mortali soffocarono tutta la vita a Pompei, Ercolano e dintorni, un evento che è stato interpretato come punizione (uno più tardi trovò il nome "Sodoma e Gomorra" scalfito in un edificio fatiscente.) La sibilla ebrea parlò di "una punizione per la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani. Un giorno del giudizio! Il giorno diventò notte! Le due città sono scomparse dalla faccia della terra per 15 secoli! Il caso le ha fatto ritrovare, quasi illese. Questo può essere ammirato sia a Pompei stesso come anche nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il MAN.

Le nostre conoscenze sull’antichità sono state immensamente arricchite dal tragico evento. Goethe, nel suo modo di parlare spesso un po’ sarcastico (ha scalato il Vesuvio tre volte) disse: "Nessuna catastrofe ha fatto tanto bene all’umanità quanto questa"! Beh, forse questo è davvero discutibile. Questa montagna ha rappresentato anche la fine dei miti. Il poeta e storico romano Tacito chiese a Plinio una relazione poco dopo il disastro. Suo zio, un noto filosofo e naturalista, comandante della flotta Romana stazionata a Miseno, corse in aiuto di conoscenti, ma anche per sete di conoscenza, a Stabia in barca e morì nell’inferno dell`eruzione... e suo nipote ha descritto tutto meticolosamente. Morì, ma il rapporto del nipote, che il giovane poi inviò a Tacito, divenne immortale, perché per la prima volta un’eruzione vulcanica fu descritta, accuratamente e scientificamente... e diversi miti sul Vesuvio furono sfatati. Per tutto il Medioevo la montagna è rimasta tranquilla, ci sono state eruzioni più piccole solo rumori, altrimenti nulla, fino all’anno 1631.

 

Ancora una volta, fu dimenticato che c’era un vulcano, la vegetazione lo copriva quasi fino alla cima, l’agricoltura arrivava molto in alto. Poi prima un terremoto, poi un’eruzione "come nel 79 d.C."! Più di 40.000 persone fuggirono, 4.000 morirono, e la storia del Vesuvio riprende con descrizioni, relazioni, documentazioni, attività accademiche. L’eruzione distrusse nuovamente le città, ad esempio Pompei ed Ercolano, Torre Annunziata e Torre del Greco quasi per metà. Ma c’era qualcos’altro in questa eruzione? La nascita di un altro mito! Ancora una volta, ci ricordiamo di una canzone che ci riporta al passato. Il nome della canzone è  Zazà:"Era la festa di San Gennaro".......San Gennaro!?

 

E ora inizia un miracolo napoletano, la madre di tutti i miracoli!! Questo ex vescovo di Benevento era stato decapitato nel 305 N.C. e  fu sepolto "nelle oscure catacombe" di Capodimonte. Quando il Vesuvio eruttò di nuovo nel 472 d.C., i napoletani fuggirono verso la tomba del martire. Tutto andò bene, ma da allora si è stabilito uno stretto legame tra loro e il santo! Questo è esattamente ciò che la chiesa ha fatto nel 1632 durante l’eruzione già descritta. C’era un flusso di lava che si dirigeva verso Napoli (i flussi di lava si dirigevano da secoli sempre verso ovest, verso il mare, e Napoli rimase sempre senza problemi). Immediatamente, il clero organizzò una processione popolare, cantando canti sacri, avvicinandosi alla lava, con in testa il cardinale poi il viceré, cantando  e dondolando il busto più bello di San Gennaro. Ed ecco: il flusso di lava si fermò (l`avrebbe fatto in ogni caso). I vescovi di Napoli sono sempre stati dei furbacchioni al limite della legalità. Ma ora Napoli aveva il suo santo patrono, e la Chiesa aveva una migliore presa sulla gente, una presa che divenne un’ossessione.”

 

- Grazie Antonio per queste tue illuminanti ricerche storiche, le canzoni napoletane diventano un pretesto.

 

 

 

- Così Gisella di Roma, ma da Middelfart,

 

-con -La laguna della calma-. Un botanico in cerca di una pianta rara, la “mangrovia bottoncino”, si fa accompagnare da un messicano, che gli darà una lezione di vita:

 

“Giovanni allontanò il viso dal mirino e si passò una mano sugli occhi stanchi. Guardò l’orologio: era su quella chiatta  da almeno tre ore, e non aveva ancora centrato l’obiettivo. Aveva fotografato centinaia di mangrovie bianche e rosse ma ancora nessuna mangrovia bottoncino. Stavano andando troppo piano. Si voltò verso il proprietario della barca, corrucciando la fronte e indicando l’orologio, sperando di far comprendere tutto il suo disappunto. Parlare sarebbe stato inutile: già prima, il messicano gli aveva fatto capire di non sentire, a causa del borbottio del motore fuoribordo.

Dopo altri minuti di caccia fotografica, sentì la barca rallentare; alzò lo sguardo e si rese conto che stavano puntando verso una baracca, in un punto dove la laguna si apriva verso il mare. Si sbracciò per richiamare l’attenzione del messicano che, per tutta risposta, gli fece il gesto del mangiare.

«E’ ora di pranzo, señor. Dieci minuti per un panino» urlò, un secondo prima di saltare sulla sabbia per tirare la barca in secca. Giovanni si sentì intrappolato, ma si impose di mantenere la calma, dicendosi che proseguire senza mangiare non sarebbe servito neanche a lui. Dopo l’ultimo sorso di birra, il proprietario della barca si stiracchiò, alzandosi, e andò a srotolare una cosa colorata. Giovanni capì che era un’amaca.

«Mezz’ora, señor, poi sarò da lei».

Giovanni si alzò di scatto, battendo le mani sul tavolo: «Non è possibile! Lei è troppo pigro!»

Il messicano, già sdraiato, rispose: «Non si tratta di pigrizia, señor, ma di sapersi godere la vita. Hasta luego».

Giovanni aprì la bocca per ribattere, ma l’altro già russava. Si allontanò con le mani in tasca borbottando, prendendosela con il messicano e con il mondo. Sferrò un calcio ad una conchiglia, ma sbagliò la mira, inciampò e cadde pesantemente. Mentre sputava sabbia, guardò davanti a sé: per poco non era franato sopra un annoso esemplare di mangrovia bottoncino.

Alle sue spalle, il messicano rideva, tenendosi la pancia.”

 

 

Il vecchio mare e il bambino: un racconto ambientato tra le dune del Mare del Nord, che mette in risalto il rapporto tra un anziano e suo nipote. La laguna della calma: un botanico in cerca di una pianta rara, la “mangrovia bottoncino”, si fa accompagnare da un messicano che gli darà una lezione di vita.

 

Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.”

 

E con –Il vecchio mare e il bambino-:

 

“Il vecchio camminava piano, un passo alla volta, le mani dietro la schiena. Era concentrato sui suoi piedi, li osservava per controllare che si posassero sulle parti più solide del sentiero, lì dove la sabbia si compatta un istante prima che cominci il basso tappeto di erica e salicornia.

Aveva lasciato la casa alle spalle, con la scusa che quella era l’ora perfetta per la sua passeggiata quotidiana – quieta e fresca, ma ancora ricca di luce e quindi sicura. In realtà, ne aveva abbastanza delle chiacchiere delle sue figlie, dischi rotti sui soliti problemi – mariti, lavoro, la bilancia. Voleva un momento per sé. Lui e il mare. Che però era lontano. Da casa non si vedeva.

Curvo come una tartaruga intraprese la scalata. Un’ultima collina di sabbia e sarebbe arrivato. Quella strada non aveva sorprese, l’aveva percorsa ogni giorno da quando era andato in pensione e si era ritirato a vivere lì, nel villaggio affollato d’estate e fantasma d’inverno. All’inizio non esisteva un percorso e superare l’ultima duna era faticoso e complicato, ma lui aveva vent’anni di meno e ce la faceva benissimo.

Poi, il viavai dei turisti e dei vacanzieri aveva schiacciato la sabbia e ucciso le piantine, e alla fine qualcuno dal Comune aveva deciso di spargere pezzettini di legno per sostenere i passi degli abitanti, la cui età media aumentava e aumentava.

«Nonno, ma si può sapere quando arriviamo? Mi hai promesso una sorpresa, ma secondo me qui non c’è niente, me l’hai detto solo per convincermi a uscire con te».

Il vecchio sorrise:

“Non è proprio così, figliolo”, pensò tra sè. “Quella paranoica di tua madre, mia figlia, ha paura perfino della sua stessa ombra, e ha aspettato fino al tuo sesto compleanno per farti finalmente mettere il naso fuori dalla città e portarti a casa mia, questo posto dannato pieno di pericoli mortali. Ha costretto sua sorella a lasciare i suoi bambini a casa col padre, non sia mai che tu possa sbucciarti un ginocchio giocando e divertendoti.

Adesso però ha preteso che ti portassi a passeggiare con me perché è preoccupata che tu trascorra troppo tempo a casa, al contrario di quello che le ha detto il dottore. Fosse stato per me, credimi, ti avrei lasciato fare lo stratacavolo del comodo tuo, e io sarei andato al mio appuntamento giornaliero con il mio amico mare. Lei però ha insistito e mi è toccato fare buon viso a cattivo gioco. Sgambetta, sgambetta pure quanto vuoi, ma rispetta il nostro patto: corri intorno a me ma non oltrepassarmi mai. Solo io conosco la strada per la sorpresa, e tu non puoi scoprirla senza il mio permesso”.

Invece disse:

«Devi avere ancora un po’ di pazienza. Il nonno non è veloce come te».

Una folata più forte, e la sabbia gli riempì le sopracciglia cispose. La spiaggia voleva giocare con lui come suo nipote voleva giocare con la sabbia, ma il vecchio non aveva la stessa fame di vita del bambino. Era come un goloso di fronte alla fetta di torta quasi finita: metteva piccolissime porzioni sul cucchiaino per farla durare il più possibile.

Due passi prima della cima prese il piccolo per mano.

«Chiudi gli occhi», gli disse. «Fidati di me».

Il ragazzino obbedì – sua madre diceva sempre che bisognava fare ciò che dicevano i grandi della famiglia – e si sforzò tanto per rimanere calmo accanto a quella persona che aveva un ritmo così diverso dal suo.

«Ascolta bene. Cosa senti?»

«Il vento che passa e la sabbia che si sposta».

«Ascolta meglio».

«I gabbiani».

«Ancora di più».

«Sento come se ci sta qualcuno, lontano, che respira come fai tu quando dormi».

«Apri gli occhi, ora».

Il bambino aprì gli occhi e spalancò la bocca per la meraviglia.

«Acqua… quanta acqua! Nonno, ma com’è possibile? Prima ho fatto la pipì sulla sabbia, ed è sparita in un istante tra i granelli! Questa, invece?»

Il vecchio rise.

«Questo è il mare del Nord, un mare che qualcuno chiama oceano, per quanto è grande. C’è troppa acqua per sparire tutta sotto la sabbia».

L’animo antico del vecchio amava quel panorama.

Il sole bianco, calante dietro le nuvole alte. I gabbiani, sazi dopo il pasto del pomeriggio, che galleggiavano senza conseguenze sul mare color metallo fuso. Il respiro millenario delle onde al largo, e l’energia giocosa delle onde verso riva.

Più in là, una coppia, mani nelle mani, si stava lasciando. Era la fine dell’estate. I loro visi erano tristi, ma gli occhi brillavano pensando a tutta la vita che avevano davanti.

Il vecchio si riscosse dai suoi pensieri: il nipote gli stava scuotendo la mano.

«Nonno, posso?»

«Vai, ma fermati prima dell’acqua. Non ti bagnare, sennò poi tua madre chi la sente?».

Sapeva che il nipote gli avrebbe dato retta: era il suo modo di esprimere gratitudine per il regalo ricevuto. Decise di non seguirlo: la discesa della duna non era facile, e non lo era nemmeno la risalita. Dalla cima della collina di sabbia guardò il bambino correre scomposto verso il basso, inciampare, cadere, rotolarsi ridendo nella sabbia fino ad arrivare al bagnasciuga, dove scoprì la bellezza di alzare schizzi d’acqua e di rincorrere le piccole onde di riva.

“Mia figlia mi ammazzerà”, pensò il vecchio soddisfatto.”

 

Grazie Gisella, per questi due tuoi espressivi ed ironici racconti.

 

 

- Così Anna di Genova, ma da Cogoleto:

Si tratta di due stralci tratti da un mio romanzo breve, in forma di diario, che copre un arco temporale di dieci giorni nei quali seguiamo le vicende, le sensazioni e le emozioni di Caterina - la protagonista. Per buona parte nell’isola di Stromboli:

 

“Attorno al piccolo spiazzo antistante la casa crescevano indisturbati canne e fichi d’India e un poco oltre - accanto ad un vecchio muro - un folto cespuglio di capperi.

 

…le 9…presto…tardi…ma che cosa significa?…sto nuotando in strati di tempo che attraverso in tutte le direzioni…tempo che scorre, impaziente…

…questi profumi, queste fragranze incomparabili di erbe, arbusti e cespugli che crescono spontanei…scogli  emergenti e rena nera scintillante di cristalli che trattengono le orme dell’eternità…la forza di un universo infinito, sconosciuto, della cui complessità anch’io faccio parte e in cui mi muovo…un grande presente elastico…

 

Il dolore antico che nasce dalla consapevolezza della precarietà della situazione umana, dell’inspiegabilità dell’esistenza, pareva volatilizzarsi in bellissimi giochi di luce fra i raggi del sole del mattino sul mare striato.

 

 

 

( Stromboli / Bar Roma)

Al tavolo erano seduti quattro uomini che giocavano a carte. Un po’ più indietro altri due stavano guardando la televisione: un vecchio film western che anche il ragazzo dietro il bancone seguiva attentamente.

A un altro tavolo sedeva Giuseppe, il pescatore con la barba da profeta che aveva ordinato  e aspettava pazientemente qualcosa da mangiare.

Caterina sentì su di sé gli sguardi di tutti, compresa l’occhiata curiosa ancorché senza pregiudizi di chi in quel momento stava scartando una carta che non gli serviva. 

………..

…………..

Dai discorsi dei giocatori di carte Caterina dapprincipio non riusciva a distinguere proprio nulla, vuoi perché erano tenuti in dialetto stretto stretto cui lei non era avvezza, vuoi perché gli argomenti stessi presupponevano conoscenze di persone e fatti che le erano sconosciuti.

Dopo un po’ di tempo però alcuni stralci della magra conversazione cominciarono ad emergere dal contesto rendendosi comprensibili. Era tutto un chiacchierare di chistu e chiddu, erano a volte briciole di saggezza quali passata la sissantina un duluri ogni matina,

o del tipo u letto é ’na gran cosa, si nun si dormi s’arriposa.

A volte invece erano parole che esprimevano la rassegnazione derivata da una situazione insulare accettata e inevitabile: fuori non si vidi picca e nenti…nun passa anima criata…”

 

Grazie Anna!

 

 

Così Alessandro di e da Sorso:

 

“Scoccano le dodici all’Harley Chapel, la chiesa Cristiano-Polacca di CheltenamRoad. Non mi lascia indifferente il suo richiamo. Osservo I fedeli succubi seguir la funzione. Succubi di tutte le loro istituzioni.

Anche io sono succube mio caro Dio, succube sono dell’eterna distanza che ci separa. Lo spazio temporale che racchiude a sé la vita e la morte brucia in coriandoli di spine mentre trascendo e senza limite mi accendo e mi inoltro al tuo cospetto.

La vita è un’assurda corsa a chi posiziona il proprio culo più in alto, e tu, tu sei il tiranno che mi ha imprigionato qua giù, sigillato, costretto in questo corpo limitato e limitante, ma hai fatto un errore: perduto nell’estetica più spicciola hai privato la mia mente di confini, e così ho deciso di non morire. Non esiste suicidio, vergogna o prigione che possa incatenarmi. Continuerò a volare nelle dimensioni create dalla mia mente, e tu Dio, in quella dimensione non potrai far niente. Li io sono Dio. E lo sarò, Dio, in ogni mia immaginazione. Non condividerò questa mia prigione con nessuno. Perciò vattene al diavolo e lasciami sognare!

La luce riflessa dei mosaici colpiva le anziane ombre vestite di lutto. Genuflesse recitavano salmi dinanzi al cristo insanguinato. La fede era per loro un chiodo rovente sul crocefisso della vita.

Il solstizio d’estate, la memoria dilata il tempo e il ricordo dirompe rigoglioso.

Socchiusi gli occhi ai barboni della piazza.

Imbroglioni, scaltri, traditori, fannulloni, amanti del gioco… sono sempre stato affascinato da chi con un trucco ti fa balneare l’idea che la vita potrebbe essere più gratificante di quanto sia. La musica e la letteratura, per uno squallido bohemien come me erano linfa inestinguibile dove abbeverare il tormento della mia fantasia. Con le parole cesellavo riflessioni che mi permettevano di interpretare e di essere qualcun altro. Un clochard mi chiese una sigaretta. Il suo compare di bevute pisciava sul muretto. Sorrisi alla sventura.

Travolto da schizzi sui muri intravidi un Bansky, è un Cristo in croce capovolto, è Gloucester road ma la superficie di questo muro è ruvida come l’altare di Stonehenge. Ricercavo il gusto del sacro sfuggente veniva svelato soltanto la notte durante gli amplessi vigorosi di molteplici virtù. Una passante mordeva una mela e io diventavo più duro.

Si un duro…

Godevo della fama del Don Giovanni, una fama alquanto ridicola. Lacrime amare nelle diecimila notti passate al buio della mia stanza. Leggevo i padri della generazione beat:

Allen Ginsberg, Gregory Corso, John Fante e Kerouac.

Fui da loro rivoltato, inoltrato su orizzonti sconosciuti. Ubriaco brindavo alla solitudine di una candela. Mettevo in scena la distruzione del mio avvenire.

Desideravo la vita dell’avventuriero, camminare laddove gli uomini hanno paura. Sconfiggere la solitudine e la menzogna che nell’animo mio albergava. Vagare come i ribelli d’un tempo, su strade acciottolate di un novembre piovoso. Bristol era elegante nel suo grigiore.

Bedminster e le colonne gotiche, pietra e muschio sotto il crocefisso sopra l’altare.

Ricercavo la domenica santa in una poesia. La fila fuori dalla caritas. Mezze penne al pomodoro, peperoni grigliati e un filone di pane da spezzare col fratello di fianco. Sole allo zenit e respiravo miseria mentre un border collie riposava quieto all’ombra del ginepro in fiore aspettando il padrone che di fame per la strada va a mendicare.

Ed io, sotto questo cielo vivido di silenzio, sotto un sole spremuto su di una tavolozza di colori, sono il menzognero mascherato da Dio inopportuno. Striscio in una platea di applausi e fischi, tra strati di detriti chiamati incomprensioni, vane illusioni, presuntuosa superficialità distorta, consapevole che anche le buone intenzioni (come le cattive) possono angustiare un anima se mancano di comprensione.

 

Venni assunto in un risto-pub su King street, dinanzi al teatro. Il Beer Emporium era un locale storico dal soffitto basso con due ampie sale divise da un arco di pietra. Il caffè era di pessimo gusto, infinite le tipologie di birre, spillate ben oltre il bordo dei boccali. Questa consuetudine tutta inglese rendeva il bancone e il pavimento appiccicoso e maleodorante. Era un locale frequentato da giovani amanti della disco e da pederasti amanti di quei giovani musicisti e dei nudi appesi senza gusto alle pareti. La birra costava poco e l’aria puzzava di vecchio. Come barista non ero un granché. Dopo poche ore, Salv, il proprietario del locale, mi rinchiuse nella plonge (lo stanzino dove venivano risciacquati i bicchieri). “Qui dentro farai meno danni Jedd” disse, pentito di avermi assunto. Ah che uomo quel Salv. Salv, l’italiano che cambiò il suo destino. Salv, pelatone con la fronte madida di sudore. Salv, l’emigrato che dimenticò le sue radici. Avvertivo disprezzo nei suoi occhi da lupo. Che uomo quel Salv, lui sì che menava le mani e non perdeva tempo con la macchina da scrivere. “Hei disgraziato, a lavoro si viene coi calzini!”, mi riprendeva indignato, indicando col dito la strisciolina di pelle bruna, che si intravedeva tra l’orlo dei miei pantaloni e le scarpe. “Hei disgraziato, questi bicchieri non sono stati asciugati a dovere”. Come un sommelier ondeggiava il bicchiere contro luce, mostrandomi, a riprova delle sue ragioni, l’acqua calcarea, che ne opacizzava il vetro. Le settimane passavano, ma Salv, occhi di lupo, non smetteva di tormentarmi. “Hei disgraziato, hei disgraziato, hey disgraziato!”. Finì col dimenticare il mio nome ed io di rimando sopravvivevo alla vita. Arrivò il natale. Io, il grande scrittore, con coraggio portavo in alto il nome glorioso di tutti i lava bicchieri. Io, il grande scrittore, posata la penna, diventai ben presto un esperto di detergenti e strofinacci. Solo nubi all’orizzonte. Nubi sotto le stelle. Escoriazioni alle dita dovute al contatto coi detergenti e pressione a sessanta scarsi, confidavo sulla giovane età, recitando l’omelia d’ogni mattino. “salv ti uccido”. Poi ci ripensavo e concentrandomi sul romanzo mi ripromettevo, che ben presto nessuno più avrebbe osato maltrattarmi. L’ira funesta, la strage che nella nebbia scompare. Un accrocco sulla via del marciume. Questo era il mio romanzo. Semplicemente non esisteva. Dalla nebbia niente si dissipava. D’altronde mi piaceva la ketamina. Una volta vedetti come la morte arriva. Non si può spiegare. La sostanza corporea, così come la coscienza, era ormai superflua e poi tutto nero. Ed io non esistevo. Mi ritrovai su di un groviglio di lenzuola sudate, colori alle pareti offuscati. Sentivo ancora la dose di ketamina in circolo. La ragione ebbe la meglio sul mio equilibrio. Riuscì a sedermi con difficoltà. Vedevo i binari della mia vita nascondersi fugaci dietro l’orizzonte, laddove tra le fiamme il ghigno di Salvatore mi continuava a perseguitare. “Hei bellino”, una voce grezza di diamante mi chiamava dalle profondità del letto. Maria, terribile olezzo, era la troia tossica del quartiere. Puzzava di culo ed alcool. Nonostante i suoi occhi giallastri e il candore del viso, non era bella. Cantava i mantra di Shiva quasi posseduta e col suo accento rumeno sceglieva lei dove farmi venire.“Non svenire sul letto, e ricordati di pagare” la sentii brontolare. Osservai la camera. La parete alle mie spalle, dietro il letto, era tappezzata di vecchi acquerelli su carta. Vecchie divinità, che riscoprivano i piaceri del sesso. Falli e vagine di ogni dimensione e versi di poesia pornografica. Con un gesto crudele delle dita strappai tutte le immagini dalla parete. Presi dalla tasca dei pantaloni, addormentati di fianco al letto, un biglietto da cinquanta sterline e una penna bic commerciale. Ci scrissi sopra dei versi, spacciandoli per miei. “Il cuore”, trattenni il respiro e proclamai con enfasi,“prima chiede gioia, poi assenza di dolore, poi quegli scialbi annodini, che attenuano il soffrire, poi chiede il sonno, e infine, se a tanto consentisse il suo tremendo giudice, libertà di morire”. Erano versi di Emily Dickinson, Maria terribile olezzo non lo sapeva, assuefatta così com’era dai suoi piaceri. Occhi spenti e pilo erezione, assaporava l’immortale bellezza delle parole, credendole mie. “Sei un grande scrittore”, ansimava, tartassandosi la passera con due dita. Appallottolai la banconota e la lanciai sopra quella creatura (immonda) maleodorante. Mi rivestì, mentre lei eccitata bagnava tutto il letto. “ritornerai?

Mi lasciai alle spalle quel girone infernale di ruffiani e seduttori. Old market profumava di tapas la mattina. Era terminato l’effetto della ketamina, ero un firmamento senza stelle. Asfalto nero sulla strada del mattino.”

Grazie Alessandro. Sono contento che ora tu sia invece ritornato in Sardegna!

 

- Guido di Lioni, ma da Roma, ci ha mandato questo suo testo –Carne sintetica, quello che arriverà sulle nostre tavole-. Il testo è sulla pagina di letteratura spontanea skype.

 

Grazie Guido di essere con noi.

 

 

- Io di Roma, ma da qui da Monaco, ho letto altre poesie dal mio piccolo libro "Un soldato da solo". Per cercare di farne capire meglio il senso ai partecipanti assenti al precedente incontro, ho poi più o meno così accennato ancora una volta agli antecedenti ed al contesto nei quali le ho scritte:

  

   "In realtà io sono un po’ un reduce del ’68 e degli anni seguenti. Allora ero all’Università a Roma, facoltà di Giurisprudenza. Quelli erano anni di grandi cambiamenti. Una società strutturata per organizzare un numero limitato di persone si ritrovava all’improvviso a doverne organizzare un numero infinitamente superiore, con il boom delle nascite del dopo guerra. Furono anni di rivolte, di occupazioni, di bombe vere, di attentati, di pestaggi e di depistaggi.

   Ricordo che la nostra fu la sola facoltà occupata dai fascisti, che la stampa allora chiamava "nazi-maoisti". In tutte le altre facoltà invece c’era il movimento studentesco vero. Io ero una matricola. Capivo poco di tutto quello che mi succedeva attorno, ma abbastanza per capire di star vivendo anni irripetibili.

   A fare un po’ di ordine vennero per fortuna un giorno in facoltà alcuni giudici ed avvocati democratici, che per la prima volta ci parlarono in una lingua comprensibile ed ispirante fiducia. Alcuni di noi, 7 per la verità, presero la palla al balzo. Ognuno si scelse il suo giudice o avvocato e si offrì come suo generico e volontario aiutante. Io me ne scelsi addirittura due, il giudice Aldo Vittozzi e l’avvocato Edoardo Di Giovanni.

   Il filo sottile da seguire era per noi quello di mantenere un minimo di legalità tra le contrapposizioni studenti-polizia. E questo filo si spezzò più e più volte in più parti.

   Poi vennero gli anni del riflusso. Il movimento era andato troppo avanti e si era poi trovato isolato e stava tornando indietro. Io intanto avevo già dato 16 esami, anche se per la verità non tutti brillantissimi. Decisi allora di fare il servizio militare allora obbligatorio, per prendere tempo.

   A quel tempo giocavo a calcio in una squadra, la Tibur, di un quartiere vicino. Il mio allenatore mi disse di conoscere il Maresciallo dell’Aviazione che faceva le designazioni delle sedi degli avieri. Se avessi voluto, dopo il CAR avrei facilmente potuto restare a Roma e continuare a giocare nella nostra squadra.

   Durante il riflusso i sogni degli ideali avevano pericolosamente cominciato a vacillare, specie quello di essere trattati tutti allo stesso modo, senza preferenze. Un po’ mi vergognai, però finii per accettare. Rimasi a Roma e continuai a giocare al calcio. Ma poi fui per questo punito.

   Mi mandarono al Ministero dell’Areonautica, tra l’Università e la Stazione Termini, alle Segreteria del Generale Cavalera. Sapevo battere a macchina e questo allora bastava ed avanzava. Ero addetto alla sua corrispondenza.

   La sua corrispondenza era quasi tutta del tipo: "A seguito di analoghe premure da me ricevute, si prega di assegnare il tal aviere alla tale sede da lui desiderata. Intanto rimango a disposizione per  eventuali necessità da parte sua, firmato in genere da Andreotti, allora mi sembra Presidente del Consiglio dei Ministri o da Lattanzi, allora Ministro della Difesa.." Erano raccomandazioni in fondo come la mia, ma loro erano pubblici ufficiali!

   Io fotocopiavo e passavo tutto ai miei collegamenti con quello che era rimasto del movimento studentesco. Anche in caserma poi, se per esempio la figlia del Maresciallo si doveva sposare, il padre veniva nominato responsabile della mensa, per il tempo necessario a poterle dare una dote, con parte dei soldi destinati invece al vitto degli avieri. Io diedi da analizzare ai chimici del movimento il vino che ci davano: acqua e polverine.

   Fu così che dopo un paio di mesi, tornando una sera in caserma dalla libera uscita, l’ufficiale di picchetto mi consegnò una lettera. Era il mio trasferimento immediato ad Ortanova (Foggia). I servizi militari di informazione, anche se non esattamente velocissimi, avevano finalmente capito che io non ero esattamente la persona più adatta a stare nella Segreteria particolare del Generale Cavalera.

   Dal frastuono romano passai quindi all’isolamento in campagna. Non avrei mai creduto di essere così pericoloso, da far arrivare loro a tanto.

 

Terza impressione

 

È talmente grande questa pianura che

sud tuona buio

nord è un’isola di luce (Monte Sant’Angelo)

a ovest triangoli a fasci di neon

a est il paesaggio è sereno, gli alberi in fila

Qui sopra

una grondaia otturata

mi spacca il cervello

 

Temporale di notte

 

In fondo la paura

buia di tuoni e vento

la crepa di un lampo

precisa e lucente

ai lati bagliori

che tendono botti

ma gli alberi si piegano al vento

 

Il tran tran

 

I colori della sera

quelli no

quelli sono sempre nuovi

promessa diversa

mai ancora mantenuta

bugia quotidiana

 

Un soldato da solo

 

Che strano posto hanno scelto per vivere i cani dell’aeroporto

Se l’hanno fatto per gli aerei poi

non ne vedranno neppure uno

mai una donna

mai un bambino

mai un passeggio in un giorno di festa in paese

e penseranno che la vita sia questa

una pianura di stoppie e asfalto

e che l’orizzonte sia la rete

e che la terra sia senza mare

senza alberi

senza colline

Ma è meglio non continuare a pensare

quello che i cani pensano.

Qui

è proprio questo

che vogliono.

 

Quarta impressione

 

Sta cambiando il tempo

e non promette niente di buono

il cielo è ancora sereno

un poco di vento

ma c’è foschia

un cucciolo gioca

un cane mangia

vento dell’est

sole sciapo

pochi colori

tutti uguali

 

I cani e la stella

 

C’è colla luna una stella stasera

si rotolano i cani nell’erba

con baci di morsi

tutto il giorno si sono rincorsi

ed ora

ora c’è colla luna una stella stasera

 

Quinta impressione

 

È notte

sento ancora zappare il contadino

 

Cuccioli e cani

 

Secondo me

anche a prescindere dall’altezza

si capirebbe poi uguale

chi è ancora cucciolo

e chi è già cane

Si capirebbe facilmente dalle mosse

da chi gioca coi lacci

da chi lecca per primo

e da chi tenta di saltarti agli occhi

da chi sembra un coniglio

e da chi nasconde subito l’osso

da chi in casa è padrone

e da chi ci sta sugli spilli

da chi sta sempre con me

e da chi viene solo all’ora di cena

da chi ruba per gioco

e chi per gran fame

uno ha la lingua dolce

l’altro molto meno.

 

 

Tra cani

 

Quando il gioco si fa pericoloso

allora il più piccolo

si sdraia per terra

e nasconde il muso

Ricordo che da bambino

in questi casi

io dicevo „pace!“

 

Scorcio

 

I cani rincorrono le rondini

ma su piani diversi

Un cucciolo scava una zolla

misteriosa

ed io?

 

Sesta impressione

 

Nuvole di lanterne

di arance

di fumo

di rose

di lividi

Prima i colori cavalcano il cielo

poi convergono in quella buccia d’arancia

in quel fiocco di neve

Ora

sono ricoperti di morte

che pian piano

ha la meglio

 

Settima impressione

 

Lei

secondo me la luce

non se ne andrebbe mai

È il fumo che la copre

Dagli ultimi fiocchi

si vede bene

che sopra è ancora oggi

o tutt’al più

domani”

 

Grazie!
Un caro saluto e a presto

giulio
ps.. Chi può e chi riconosce l’importanza formativa di questa iniziativa, senza fini di lucro e che dura ormai da 24 anni, può anche un po’ sostenerla economicamente con un versamento sul c.c.  HypoVereinsbank, giulio bailetti, Kontonummer 6860168020, Bankleitzahl 70020270, IBAN DE69700202706860168020, BIC HYVEDEMMXXX oppure sul mio Paypal: paypalme/letteraturaspontanea  Grazie, comincio a diventare vecchio e ve ne sarei molto grato!

I vostri commenti

This page has no comments yet

Pubblica un commento

Questo blog incoraggia i vostri commenti e se hai dubbi, idee o domande su qualsiasi argomento pubblicato, ti preghiamo di inserirli qui.
Per evitare spam e contenuti inappropriati, i commenti sono moderati dall'amministratore del blog.

Access your Dashboard

Hai dimenticato la password?

Se hai dimenticato la password, richiedila a noi.  Clicca qui

Crea un account

Non sei ancora iscritto al sito? Registrati ora!  Clicca qui

 
31 visite