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La ‘città ideale’ di Urbino

La ‘città ideale’ di Urbino

LUCIA BEDINI
La ‘città ideale’ di Urbino
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La ‘città ideale’ (foto 1) è un dipinto che si trova all’interno della Galleria Nazionale delle Marche ed è stato realizzato nella seconda meta del 1400, forse su commissione di Federico da Montefeltro, duca di Urbino. Il tema della città ideale rivive durante il rinascimento, quando la città ritorna il luogo fondamentale per l’attività dell’uomo.  La prima volta che si descrive una città ideale in un trattato, si parla di “bellezza e ordine”, e per ordine si intende misura, proporzione, decoro, armonia. Nel medioevo non c’era una trattatistica sulla città fondata sul rispetto delle leggi e retta da un governo esemplare. Il modello della città era la civitas Dei di S. Agostino, che negava il valore della residenza terrestre: “pellegrino in terra, cittadino in cielo”. La civitas Dei è la Gerusalemme celeste, che è impossibile realizzare in terra, perché l’uomo è macchiato dal peccato originale, dunque se il regno non è di questo mondo, non serve fabbricare edifici. Nel medioevo la verità della natura non era logica né fisica, ma religiosa, l’uomo non era certo “immagine di Dio”, era stato “fatto a somiglianza di Dio”. Le città erano rappresentate nel cerchio delle mura secondo l’ideale astratto della città di Dio, la bellezza era da collegare alla creazione di Dio, non ad una valutazione estetica e razionale degli spazi urbani; era una bellezza che suscitava stupore e meraviglia; non una bellezza razionale, matematica, scientifica, legata alla consapevolezza della dignità dell’uomo artefice che può edificare, creare all’insegna dell’organizzazione geometrica dello spazio attraverso la prospettiva. Nel ‘400 la cultura umana diventa opera dell’uomo e la dignità dell’uomo sta nella sua capacità di costruire e di creare il proprio universo fisico, il proprio stato ideale, senza interventi soprannaturali. 
Si passa così dalla città di Dio alla città dell’uomo, destinata ad una società dettata da regole di armonia - date da un governo saggio e giusto - che si rispecchiano nell’equilibrio e nella razionalità delle architetture e degli spazi urbani. Si ritorna al passato per creare una continuità ideale nelle istituzioni che contemplavano il valore massimo della libertà, giustizia, pace, rispetto, armonia. Si accosta così la struttura architettonica della città alla struttura politico-sociale che ha come fine l’armonia. 
Nel ‘400 nasce la fiducia nell’uomo e nella sua capacità di edificare. Lo spazio rinascimentale è frutto di una riorganizzazione del mondo, uno spazio che ha come metro l’uomo: “L’uomo è misura di tutte le cose” (Protagora)
Il cambiamento della città è condizionato anche dalle traduzioni dal greco al latino di Platone e Aristotele ad opera degli umanisti quali Salutati, Bruni, Decembrio, Acciaiuoli. Acciaiuoli “mentre governava, filosofava e filosofando governò la repubblica di Firenze”. All’inizio sono gli umanisti che le donano ai signori, poi avviene il contrario: Federico da Montefeltro e Cosimo Medici le commissionano. La richiesta di Federico è giustificata dalla volontà di conoscere la strategia politica del buon governo. Il principe vuole imparare ad essere un buon amministratore - mai un padrone - della città. 
“E forse alle pagine dell’Alberti bisogna far capo, per ritrovare quell’equilibrio nell’opera del principe che intende regnare nella sua casa e non essere tiranno di popoli; quella casa, che deve essere all’esterno e all’interno, nella materia e nello spirito, ordine, razionalità, armonia, per poter essere il centro dove tutti gli esseri umani possano convenire in un consorzio di spiriti e di intenti” (Brunelli, il rinnovamento della politica nel pensiero del XV secolo in Italia, in Fabio Cusin, La personalità storica dei duchi di Urbino, ed. della galleria dell’aquilone, Urbino, 1970, pag.92). Cusin scrive che l’opera politica di Federico Montefeltro, anche se ciò può apparire un paradosso, è il palazzo ducale di Urbino.
Questo nuovo principe tratta paternamente col popolo e ritiene suo dovere garantire la pace tra i suoi cittadini; è figlio di un particolare momento storico, in cui si assiste alla trasformazione del capo, diventato tale con la forza, in princeps dello Stato. Il microcosmo sociale, frutto dell’evoluzione caratteristica del Comune italiano, accetta l’idea del princeps benefico. Il dualismo ideale tra populus e sovrano è sancito ora da una convivenza serena. Per il militare Federico da Montefeltro gli studia humanitatis hanno prevalso sulla guerra e lo hanno portato a scegliere di combattere solo se strettamente necessario.
La politica diventa nel rinascimento massima espressione della potenza e capacità costruttiva del principe. Non la guerra, ma la pace è il suo ideale: conservare, più che estendere lo Stato.
Federico cerca la soddisfazione in altre manifestazioni diverse da quelle della pura volontà di potenza. E’ una conseguenza, ma anche una grande conquista, della forma spirituale dell’Umanesimo: il principe dei condottieri di ventura è pronto a scegliere una forma di vita dove la funzione militare non è posta in primo piano. Il discepolo di Vittorino preferisce il sistema della pace armata; dare un significato alla propria opera di governo prevale sul problema politico.
Dall’attività pratica del condottiero politico, l’uomo sfugge nella ricerca di un’atmosfera più elevata, dove ricrearsi lo spirito, in una bellezza di vita che si propone di perfezionare il mondo stesso. Da ciò l’opera costruttiva, il miglioramento spirituale imposto a se stesso e al mondo circostante, come gli ha insegnato Vittorino da Feltre. Dietro a questo tentativo di costruire nella realtà una perfezione sognata c’è l’aspirazione diffusa nelle classi colte europee di crearsi una perfezione immaginaria versus una realtà grossolana che si vuol dimenticare. Ma Federico non si accontenta più di un ideale impossibile da realizzare; qui, negli atti stessi della vita di Federico e nei costumi della corte urbinate si scivola ancora verso un sogno o una finzione, ma con la fiducia di costruire una realtà (Cusin, op.cit., pag. 84). Lavorare, dar da lavorare, costruire in una parola. L’ansia di rinnovamento era alla base dello spirito del secolo. Quest’ansia di costruire si manifesta nelle grandiose costruzioni architettoniche: costruire case, palazzi, con razionalità, solidamente, fondandosi su sani e razionali criteri di tecnica costruttiva necessari alle opere di guerra e alle opere di pace. Ed ecco l’opera architettonica che simboleggia la costruzione dello Stato, ed ecco l’organizzazione accurata della corte urbinate, che non deve essere seconda a nessuna, ma che tutte deve superare per criterio di ordine e di metodo, come si evidenzia nella disposizione delle sale del palazzo ducale. Il Filarete, nel suo trattato di architettura, paragona lo Stato ad una costruzione di cui il principe è il capomastro e l’ingegnere che deve provvedere alla sistemazione di tutte le sue parti.
Anche Leon Battista Alberti concepisce il principe al servizio della comunità che deve conservare pace e libertà dei cittadini per condurli alla felicità dell’anima.
La rielaborazione dello spazio architettonico per l’Alberti e il Brunelleschi deve essere coordinata attraverso le regole della prospettiva. La prospettiva rinascimentale è alla base della costruzione dello spazio reale (Urbino e Pienza) e la tavola urbinate rappresenta un esempio del rapporto tra prospettiva e urbanistica, per cui la città ideale è il punto di incontro tra pensiero politico e pensiero estetico. Nel dipinto c’è il modello ideale di città rinascimentale: armonia di geometrie, forme e proporzioni.
Alla corte di Urbino è legata una visione per la quale la realtà data dalla creazione divina è regolata dai rapporti matematici, dalle proporzioni numeriche che rappresentano quindi la misura divina della realtà visibile e sulle quali si deve basare l’uomo nel riprodurre la realtà stessa, soprattutto lo spazio architettonico.
Il tema della città rinascimentale sottintende la qualificazione formale della struttura urbana, non solo nel ruolo della città come luogo deputato al vivere civile. La speculazione sulla città è intessuta di temi matematici, filosofici, politici e diventa centrale nel passaggio tra mondo antico e moderno. Sintomatico è il rapporto che si instaura tra signore e città. Con l’affermarsi delle signorie e dei principati la città diventa, con la ricchezza e la qualità delle architetture, un punto fondamentale della promozione politica e culturale, la dimostrazione visibile della potenza e del prestigio del signore. La “città in forma di palazzo” è il raggiungimento più alto, il simbolo visivo più straordinario non solo della potenza di Federico, ma anche della sua cifra intellettuale, della sua attitudine di portare il molteplice all’unità nel segno della speculazione matematica e filosofica. Gli architetti, matematici, artisti raccolti alla corte di Federico sono portatori di esperienze, idee, proposte di grande varietà. Ne risulta una visione unitaria dello spazio costruito retto dalle regole auree della misura e della proporzione - il palazzo, da solo, si costituisce quale immagine della città. 
Si evidenza la contrapposizione agostiniana tra urbs e civitas: l’urbs è quella costruita dagli uomini, e quindi si può distruggere; la civitas è basata sugli uomini, ed esisterà finché ci saranno gli uomini. 
La filosofia e la retorica entrano nei curriculum studiorum dei giovani studenti che vengono educati alla vita attiva, alla formazione del senso civico. 
Anche la considerazione della matematica cambia. Nel medioevo era studiata nell’ambito della metafisica e della teologia. I mercanti che avevano bisogno di cercare soluzioni ai loro problemi di calcolo non erano interessati a questa matematica. Le scuole umanistiche come quella di Vittorino hanno il merito di far entrare nel quadrivio lo studio di Euclide. 
La ‘città ideale’ è una città razionale, costruita scientificamente secondo le regole della matematica, cioè secondo ragione. Si arriverà a Raffaello che – figlio di Urbino – opererà una sintesi tra pensiero e immagine. Nella ‘Scuola di Atene’ sono in posizione assolutamente privilegiata le arti del quadrivio (l’aritmetica rappresentata da Pitagora, la geometria da Euclide, la musica dal biblico Tubalcain, l’astronomia da Tolomeo), le arti predilette dal duca Federico, quasi a suggellare il continuativo rapporto di Raffaello con la cultura che gli proveniva dalla sua formazione urbinate. L’impostazione scientifico-matematica, che è alla base del Rinascimento urbinate, è stata chiaramente assorbita da Raffaello durante la sua formazione nella città natale.
Nel dipinto urbinate - testimonianza del nuovo pensiero razionale - protagoniste sono l’aritmetica e la geometria, le arti liberali utilizzate per progettare, per creare. Nella patente rilasciata nel 1468 da Federico a Luciano Laurana sono definite in primo gradu certitudines.
Il tema della città ideale era già stato trattato da Platone, da un punto di vista filosofico e politico. Platone riconosceva all’architetto il compito di dare forma alla realtà (l’architettura si fonda sulla verità della geometria). La città e la società sono espresse dalla politica del signore illuminato. La forma della città è un’espressione del modo di governare lo stato. Edificare secondo ragione per Federico è una forma di governo.
Federico, che da Vittorino ha ricevuto una educazione umanistica, sviluppa il concetto di città ideale su due piani: teorico e pratico; teorico collegato al modo di condurre lo stato, pratico connesso alla realizzazione degli edifici e delle città. 
I signori sono i primi committenti delle città razionali e tra principe e architetto nasce una collaborazione, un’alleanza. 
Federico è l’unico principe la cui presa di potere è stata sancita da un patto col popolo e dall’impegno di governare bene, in modo giusto e saggio, per il benessere dei cittadini. Federico prende sul serio il suo impegno e il rapporto coi cittadini è di reciproca fiducia; il palazzo è una testimonianza, una struttura senza barriere, aperta sulla realtà urbana che con la facciata ad ali presuppone accordo e armonia con la città. L’armonia e la razionalità delle forme rispecchia l’armonia dell’ordine sociale e del buon governo. Un governo giusto e illuminato crea una società pacifica e armoniosa.
Il buon governo non è solo fondato su principi evangelici, è necessario. Federico è un vicario; in questi secoli nel territorio dello stato della chiesa alcune oligarchie locali vogliono essere soggette direttamente alla chiesa (senza la mediazione di un signore) per avere maggior potere. Di qui la necessità di una attenta politica interna ed estera. La politica interna richiede una situazione di pace all’interno dello stato; la sua fortificazione visibile; la creazione di una nobiltà fedele. La politica estera richiede forti alleanze politiche e militari esterne allo stato della chiesa. 
E’ il mestiere delle armi a garantirle entrambe.
La politica interna è la politica del buon governo. Si fonda su tre principi: rapida amministrazione della giustizia, lavoro per tutti, tassazione meno pesante possibile. Il programma è sorretto da una lucida e intelligente consapevolezza che il buon governo paga in rafforzamento del potere.
Già Platone nella Repubblica (IV, 427E sgg.) indica le virtù, e in particolare la Giustizia, come base della città perfetta e della perfezione morale dell’individuo (Patrizia Castelli, Epanastrophé. Il doppio trionfo di Federico da Montefeltro: antiche virtù e nuova scienza, in Ricerche e Studi sui Signori del Montefeltro di Piero della Francesca e sulla Città Ideale, Quaderni della Soprintendenza di Urbino, a cura di P. Dal Poggetto, ediz. Quattro Venti, 2001, pag. 47).
Anche Il concetto di idea deriva da Platone. Per Platone l’idea è la struttura, la base; poi l’idea si sviluppa e si passa al progetto, infine alla realizzazione. Nel 1400 quando l’uomo riconquista la sua dignità, diventa artifex, crea, idea, progetta, realizza e lo spazio per l’uomo è uno spazio all’insegna di una architettura lucida, chiara, limpida, realizzata con gli strumenti dello scienziato, riga, squadra, goniometro, compasso, numeri, calcolo, aritmetica, geometria, le discipline usate per creare l’armonia, la misura, la proporzione. Questa scientificità può indurre a pensare che quello che noi vediamo è vero; chi di noi oserebbe dubitare della verità della scienza? Quello che si vede nella ‘città ideale’ può essere considerato qualcosa di scientificamente vero, credibile. Cosa si vede in questa tavola? Un ideale, cioè una idea, una visione. Se fosse di committenza federiciana, potremmo vedere il suo ideale. Federico è un politico, nel senso etimologico del termine, con il nomen che coincide con la res. Il suo ideale è il bene comune, il buongoverno, il consenso popolare. Nel dipinto vediamo una città/governo fondata sulla bellezza, ordine, armonia, misura, decoro, sicurezza, proporzione, equilibrio, parità; gli edifici hanno la stessa altezza, sono livellati, pobabile riferimento alla parità nella dignità. La formazione filosofica di Federico è evidente. I filosofi antichi (Platone, Parmenide, Plotino) avevano una visione monistica dell’universo, non dualistica, come quella odierna, che prevede la distinzione tra soggetto e oggetto. Oggi il soggetto pensa presuntuosamente di poter dominare, controllare e gestire l’oggetto; per esempio, l’ambiente è considerato un oggetto. Non c’è la consapevolezza che l’uomo e l’ambiente sono un tutt’uno, che l’uomo senza l’ambiente non può vivere. Secondo la visione monistica il soggetto e l’oggetto sono due facce di un’unica medaglia, ne consegue un atteggiamento di rispetto reciproco. L’altro è considerato un soggetto. Chiunque di noi si senta un oggetto del suo interlocutore capisce presto che il rapporto non è destinato a durare. Montaigne diceva “zoppica” perché non è paritario. L’altro deve essere un soggetto in ogni relazione: tra compagni, genitori e figli, insegnanti e studenti, medici e pazienti, governanti e governati. Qui governante e governati sono allo stesso livello. Nell’urbanistica medievale ancora la casa torre indicava l’importanza del proprietario. Il più potente alzava la torre, oggi alza la voce, a volte anche le mani. Il concetto di parità era anche nella giustizia. J. Sabatino de li Arienti riferisce che Battista “fu clemente, cum grandissimo zelo di iustitia … volea circa la iustitia che ogni homo fusse equale” (J. Sabatino de li Arienti, De Baptista Sforza Duchessa de Urbino, a cura di F. Cecchini, Pesaro, 1858, pp.297-298).
Al centro del dipinto si trova un tempio. Plutarco scrive che non incontreremo mai una città senza un tempio.
“Se tu percorrerai la terra, potrai trovare città senza mura, senza lettere, senza re, senza case, senza ricchezze, senza monete, senza teatri e palestre; ma nessuno vide mai né mai vedrà una città senza templi e senza dei” (Plutarco, Adversus Colotem, XXXI, 4-5)
Il tempio è la sede della religio e della conoscenza. 2500 anni fa la filosofia è nata in un tempio, dove il sacerdote/filosofo si è posto per primo quelle domande sull’uomo a cui ancora oggi l’uomo tenta di dare una risposta: chi è l’uomo? Da dove viene? Dove va? Homo homini lupus o homo homini deus? Ci sono pochi anni di differenza tra Plauto e Cecilio Stazio. L’uomo contemporaneamente è aggressivo e divino. Come si spiega? Da cosa dipende questa diversità? Dall’idea, dalla visione. Da come noi vediamo il mondo. Se è una visione diritta (ius- iuris, diritto, giusto) o uncinata, egoistica, egocentrica; se l’altro è un hospes o un hostes, un soggetto o un oggetto, un fine o un mezzo, per usare termini kantiani. Il tempio potrebbe custodire il nostro ideale, la nostra visione del mondo, se al centro della nostra visione è la religione, il tempio potrebbe rappresentare un battistero; se è l’uomo un pantheon, se la sanità un ospedale, se la ricerca un laboratorio, se la giustizia un tribunale, se la famiglia una casa, se l’istruzione una scuola… il nostro ideale è la ragione della nostra vita, l’obiettivo della nostra esistenza, il nostro daimon. L’oracolo di Delfi invitava a conoscere se stessi, a conoscere la propria passione, la vocazione, e a conoscere il proprio limite, ad essere consapevoli che c’è qualcosa di più grande di noi, che non siamo noi. La porta del tempio è aperta. Anche questo può essere un messaggio, possiamo entrare nel tempio che racchiude il nostro ideale, possiamo raggiungere il nostro obiettivo; ma è aperta, non spalancata, dobbiamo aprirla per entrare. La strada per entrare richiede impegno, sforzo, sacrificio, fatica, è la strada degli antichi, della virtus, non quella facile che si può comprare con il denaro o con la corruzione. Ed è la sola strada che porta alla conquista di qualcosa di duraturo. Una volta entrati nel tempio e raggiunto l’ideale, niente e nessuno potrà più toglierlo, né un terremoto, né una crisi finanziaria, né una dittatura. E una volta raggiunto l’ideale con le proprie forze, soprattutto, si potrà dire di essere un uomo libero, anche di poter pronunciare quella sillaba, semplice, ma spesso impossibile, che è “no”. 
Un altro aspetto che si nota nel dipinto è il senso di ordine, decoro, armonia, equilibrio, proporzione nelle partiture, nella distribuzione. Gli edifici hanno tutti la stessa altezza – parità nella dignità - ma all’interno sono tutti diversi, come gli uomini, intendendo la diversità come un punto di forza. Anche lo stesso dipinto potrebbe essere un’unione di forze. Questo potrebbe anche essere il motivo per il quale non è firmato. Se davvero il dipinto rappresenta l’idea, la visione, di Federico, è facile pensare che sia il risultato di più voci. D’altronde a corte sono presenti eccellenze internazionali di saperi umanistici e scientifici. Urbino è la sede dell’ “umanesimo scientifico matematico”, come verrà definito da A. Chastel. Consapevole di non poter competere con l’umanesimo filosofico di Padova, artistico di Firenze e di altri centri rinascimentali italiani, Federico afferma ad Urbino qualcosa che non c’è in nessuna altra corte: la scienza. Arrivano ad Urbino scienziati, architetti, ingegneri, trattatisti (Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Paolo da Middleburg, Luca Pacioli). Non a caso nella ‘Scuola di Atene’ in primo piano Raffaello colloca le arti del quadrivio. Diversi artisti potrebbero aver contribuito alla progettazione della tavola. Se accettiamo l’ipotesi che il dipinto possa rappresentare l’ideale di Federico politico, non possiamo pensare che un principe possa progettare da solo un ideale così impegnativo. È facile ipotizzare che si sia rivolto ad una squadra di professionisti: architetti, scienziati, trattatisti, urbanisti, giuristi, filosofi… Tra gli architetti c’è anche Leon Battista Alberti, che dal 1464 trascorreva a corte ogni estate. Quando compone il “De re aedificatoria” si ispira al trattato di Vitruvio, il “De re architectura”. I due termini in entrambe le lingue – latina e italiana -  hanno la stessa differenza di significato: costruire ed edificare. La parola “costruire” è un termine architettonico, innalzare un edificio; “edificare” ha anche una valenza pedagogica, formare il principe che abiterà l’edificio. Un principe magnanimo e liberale abiterà un palazzo aperto e ospitale mentre un principe tiranno abiterà un palazzo blindato. La facciata ad ali del palazzo ducale di Urbino (foto 2) abbraccia il visitatore, è accogliente, ospitale, come un libro aperto; il cortile, lo scalone (foto 3), le ampie sale luminose confermano l’ospitalità e la liberalità del proprietario. 


L.B. Alberti nel “De re aedificatoria” fonde la geometria con la filosofia; le scienze e la filosofia servono a edificare. La città ideale è progettata da un filosofo e da uno scienziato per educare il principe a governare con giustizia. Alberti dedica pagine all’edificazione del principe e alla filosofia di Platone, secondo il quale un re deve essere filosofo perché alla base della filosofia – e della politica - c’è l’etica, quindi filosofia e politica sono legati dall’etica. Il fine della politica è la felicità di tutti (eudaimonia). Il fine dell’etica è quello di produrre una vita buona sia per gli individui che per la comunità. Per Platone è impossibile infatti costruire una buona vita comunitaria se non è già buona la vita dei singoli. La politica penetra dentro l’anima come un obbligo a cui nessuno si può sottrarre: l’obbligo di mettere gli impulsi irrazionali sotto l’egida della ragione, così come nello stato si devono porre i filosofi a capo della società. Uno stato giusto e ben ordinato, dove sia i singoli che l’intero sono felici, è quello dove ciascuno svolge il compito per cui è predisposto, sulla base delle sole differenze naturali. Platone considerava negativa la passione irrazionale per i beni materiali, per i successi privati degli individui a scapito di ciò che è universale, comune, utile a tutti. Uno stato buono sarà realizzabile nella misura in cui si troveranno dei governanti capaci di far coincidere il proprio interesse con quello comune.

Platone sostiene che il filosofo crede fermamente nei suoi ideali per i quali è disposto anche a sacrificare la propria vita. Einstein nel suo trattato “Come io vedo il mondo” scrive "Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso egli è giunto a liberarsi dell’io" e a porsi al servizio di qualcosa di più grande, di più importante di sé, come è un ideale. Eroi come Socrate, Giordano Bruno, i giovani della seconda guerra mondiale, Falcone, Borsellino hanno perso la vita per i propri ideali, per qualcosa di più grande di loro, come la Patria, lo Stato. Anche per Aristotele l’uomo viene prima dello Stato ma solo cronologicamente (uomo, famiglia, villaggio, città, stato), perché razionalmente lo Stato viene prima di ogni cosa: non esiste un uomo più importante delle leggi dello Stato. Se c’è un governo dove l’uomo è più importante dello Stato, quel governo si chiama tirannide ed è retto dalla corruzione. Anche Federico - come l’Alberti - fonde la geometria con la filosofia; nel suo studiolo (foto 4), tra gli uomini illustri, Euclide è ritratto insieme a Vittorino da Feltre (foto 5)

L’intenzione di fondere la filosofia con la geometria si evidenzia nella raffigurazione di Euclide con il compasso in mano e nella iscrizione sotto al ritratto “Euclide da Megara”. Di Megara è Euclide il filosofo, mentre Euclide lo scienziato è originario di Talete. Alcuni studiosi ipotizzano un errore, una confusione tra i due Euclide;  è piu facile supporre che si tratti di una fusione dei ruoli, più che di confusione. Entrambi, Euclide e Vittorino, sono rappresentati nel doppio ruolo di letterato e scienziato (Vittorino, maestro delle arti del trivio e del quadrivio; Euclide, filosofo e scienziato). Federico ha studiato la filosofia platonica alla Casa Gioiosa ma chiede all’Acciaiuoli, esperto grecista fiorentino, la traduzione dal greco al volgare dei principali testi di etica e di politica di Platone e di Aristotele. Federico sa che il buon governo è l’unico modo per affermare e confermare il proprio potere. Federico rappresenta quello che Machiavelli chiamerà “principe nuovo”. Si trova a governare questo ducato in seguito a un patto stipulato col popolo. Come afferma Machiavelli la principale preoccupazione di un principe nuovo è la conservazione dello stato. Federico è vicario, dunque precario, del papa e dipende da lui. Come può consolidare il proprio potere? Con una politica lucida, intelligente, oculata, saggia, di buon governo. Ecco perché si rivolge all’Acciaiuoli.
Federico realizza il suo ideale grazie anche all’aiuto della moglie, la giovane Battista Sforza, a cui dedica il posto d’onore nel celebre doppio ritratto di Piero della Francesca (foto 6), ora agli Uffizi, il primo doppio ritratto della storia dell’arte italiana. In un momento in cui il ritratto è il genere artistico per eccelenza, “per non morire neanche dopo morto” (E. Gombrich), Federico commissiona un doppio ritratto, col quale fa sapere al mondo che senza Battista non sarebbe mai diventato Federico da Montefeltro.


Battista è cresciuta alla corte di Milano, sotto la guida di Bianca Maria Visconti che aveva organizzato la scuola per i figli suoi e del marito in base non al genere dei discepoli, ma alla capacità di apprendimento, così gli studenti più bravi erano seguiti dagli insegnanti
migliori. Battista è cresciuta con la convinzione che maschi e femmine avessero le stesse capacità e opportunità; quando arriva ad Urbino fa “chiacchierare tutt’’Italia” (A. Campano, Funebris oratio pro Baptista Sfortia Urbini Comitissa, copia esemplata nel 1483 da Federico Veterani per Ottaviano degli Ubaldini e coinservata presso la Biblioteca Medicea Laurenziana, Codice Ashburnam 968) per le sue iniziative considerate audaci, che tuttavia incontrano il consenso del marito. Federico, consapevole dello spessore culturale, dell’intelligenza, della sensibilità della sua giovane sposa, le affida il ruolo di governo; durante le sue numerose e lunghe assenze dal ducato l’uomo di stato è lei, in molti documenti definita “princeps” e “dux”. Lei fa le leggi, si occupa di giustizia, promuove la fondazione del collegio dei dottori in diritto che diventerà la prima facoltà dell’ateneo urbinate (Giurisprudenza); quando c’è un reato, il processo è il giorno successivo; fa una legge secondo cui i processi non possono durare più di 15 giorni per non ledere la dignità dei cittadini che lei sente il dovere di tutelare. Con “dignità” Battista intende che ogni cittadino del ducato deve avere un lavoro, una casa e una famiglia. “Non v’era alcun che mendicasse”, non c’erano poveri, né disoccupati. E’ molto più di un simbolo: è il “princeps” che gestisce il potere con la piena coscienza che il suo fondamento e la sua “sicurtà” è “nel contento dei popoli” (M. Bonvini Mazzanti, Piero della Francesca Ritratti e Trionfi allegorici di Federico da Montefeltro e Battista Sforza, in Ricerche e Studi sui Signori del Montefeltro di Piero della Francesca e sulla Città Ideale, Quaderni della Soprintendenza di Urbino, a cura di P. Dal Poggetto, ediz. Quattro Venti, 2001, pag. 40). Questo fa parte della politica interna ed estera retta dal mestiere delle armi. Pensiamo alle guerre, alle fortificazioni del ducato, all’indotto della guerra, alle armature e armi, c’è lavoro per tutti. Battista istituisce nel ducato la “spia della carità” (già introdotta a Milano dalla zia Bianca Visconti) che percepisce uno stipendio col compito di andare in giro nel ducato e indagare - con profonda discrezione - sul benessere dei cittadini, per verificare che tutti stiano bene. Se qualcuno ha bisogno di aiuto, Battista interviene: per un anziano da assistere, un malato da curare, una ragazza in età da marito senza dote, per chi perde lavoro, un famigliare, la casa, ecc. Lei vuole conoscere le situazioni di criticità per intervenire a sanarle. Tutti devono avere una vita dignitosa, consapevole che una società è sana quando tutti al suo interno stanno bene. In questo periodo rinasce l’importanza del rapporto armonico tra particolare e universale, microcosmo e macrocosmo; l’uomo di Vitruvio - che sarà ripreso da Leonardo - rappresenta l’armonia delle parti tra loro e con il tutto: come un cuore senza gli altri organi non ha alcun valore, allo stesso modo un governante senza governati chi governa? Quando Federico veniva a sapere che un artigiano aveva contratto un debito e rischiava di chiudere la bottega, andava in bottega a chiedere di cosa si occupava l’artigiano. Si rallegrava per la qualità dei suoi manufatti e chiedeva di entrare in società con lui, consegnando una somma di denaro. L’artigiano così sanava il debito, lieto di aver ricevuto il consenso del principe, non percepiva la mortificazione di aver ricevuto un’elemosina! Questo è quello che un governato si aspetta da un governante (oggi sono più numerose le imprese che chiudono di quelle che aprono). 
Battista investe molto denaro in cultura, consapevole che la fonte di ogni male è l’ignoranza. “L’uomo colto è più uomo; l’uomo incolto è simile e peggiore all’animale; così come la natura ha fatto i pesci atti a nuotare e gli uccelli atti a volare, così ha fatto gli uomini atti ad imparare: l’ignoranza è la causa di tutti i mali; l’unica via per il miglioramento del mondo è la cultura” (M. Bonvini Mazzanti, Battista Sforza Montefeltro, una principessa nel Rinascimento Italiano, Ediz. QuattroVenti, Urbino, 1993, p.131). Battista fa un’operazione di alfabetizzazione senza precedenti: “meglio un popolo grasso e colto di uno magro e ignorante”. Alla base della politica c’è la cultura, in Urbino la politica fa parte della cultura, non il contrario. Battista considera la politica una delle tre ancelle della filosofia morale, poiché compito della politica “è insegnare le cose che riguardano la città e come ciascuno debba prendersi cura dello Stato in modo da poter vivere in esso serenamente e riceverne onore e stima” (Martino Filetico, Jocundissimae disputationes. Introduzione, traduzione e testo a cura di G. Arbizzoni, Firenze, 1992, pag. 93 in Mazzanti, pag 120). Battista afferma che deve molto alla retorica perché “mi insegna una via sicura per perseguire l’educazione della mente, così da rendermi capace di parlare con saggezza, ma anche con dottrina, proprietà ed eleganza … con essa possiamo ottenere l’utile di noi stessi, dei genitori, dei familiari, degli amici, di tutti i concittadini” perché l’oratore ha il potere di persuadere a ciò che vuole, “ma egli non deve volere se non ciò che è retto e giusto” (Martino Filetico, op.cit., pag 197; Mazzanti pag. 120). Quindi per Battista la retorica è al servizio della politica. Cicerone è l’autore più letto e più amato dalla principessa. Nelle “Jocundissimae” Battista difende con forza la filosofia. Coloro che non si dedicano alla filosofia “restano inesperti delle leggi civili … e dei costumi umani, dei quali bisogna aver esperienza più che di qualunque altra cosa” (Martino Filetico, op. cit., p 201, Mazzanti pag. 121). La filosofia è utile guida nelle cose terrene e nella conduzione dello Stato. Del resto, per Battista l’amore più grande di tutti è l’amor di patria, perché “esso è un affetto, una straordinaria carità innata nelle nostre menti, più forte dell’amore verso i figli, dell’attaccamento verso i familiari ed i congiunti, della devozione verso i genitori e non c’è per l’uomo sentimento più lodevole di questo” (Martino Filetico, op. cit., p 217, Mazzanti pag. 121). La patria per Battista è lo Stato che regge in assenza del marito e che considera “nostro”. 
Il dipinto della ‘città ideale’ può essere considerato un manifesto degli ideali dei due principi, chiamati a volte “gemelli”, che condividono l’ideale del buon governo. Sono complici e collaboratori. Federico guadagna molto denaro, e con l’aiuto della moglie, lo investe in iniziative a favore dei cittadini. Federico guadagna bene perché offre due garanzie: successo militare (dispone di corpi specializzati formati e preparati) e lealtà: la parola è sacra, “lo denaro non tiene alcun valore se non per essere speso” e per qualcosa di alcun valore il duca non ha mai compromesso la sua dignità e professionalità; non ha mai venduto la sua anima per denaro, anche perché se si vende l’anima per denaro, poi con che cosa si ricompera? Il committente che ricorre a Federico ha la certezza di spendere bene il proprio denaro. L’esercito del duca inoltre in tempo di pace lavora guidato dagli architetti militari e realizza opere come fortificazioni, strade, acquedotti, palazzi. Il denaro guadagnato dalle condotte militari è poi messo a disposizione del bene comune.

La lettura della tavola, va collocata accanto ai continui richiami di città ideali intarsiate nelle 5 porte del palazzo (foto 7), specchio e modello di uno stato ideale perfetto. 

Queste porte sono nell’appartamento privato del duca, non accessibile a tutti, e rappresentano il vecchio e il nuovo, l’antico e il moderno, il medioevo e il rinascimento, il castello e il palazzo, come se Federico stesse pensando, elaborando, ideando, progettando una città ideale fatta di vecchio e di nuovo, passato e presente, consapevole che non c’è futuro senza passato. Per andare avanti bisogna sempre conservare qualcosa del passato, quello che Hegel chiamerà aufhebung, “conservare superando” o “superare conservando”. Federico parte dal passato e dal presente e arriva al futuro, alla città ideale. Nella sala degli angeli, nella zona pubblica del palazzo, in una porta intarsiata c’è la sua città ideale, con strutture armoniche, con riferimento al decoro, armonia, ordine, misura, proporzione, tecnicamente perfetta. 

 

Intarsiate nelle formelle superiori, Apollo e Minerva (foto 8), le due divinità preposte alla custodia della città ideale, rappresentano armonia e saggezza, senza le quali non si può raggiungere un ideale (in casa, in ufficio, a scuola, in parlamento). Nella stessa sala, per accedere alla stanza delle udienze un’altra porta è un biglietto da visita, con armi e arti; si entra consapevoli di essere ricevuti da un uomo d’armi e di cultura, in equilibrio tra vita attiva e contemplativa. Nella porta tra la sala degli angeli e la camera da letto, invece, sono intarsiati Ercole e Marte (foto 9), le divinità preposte alle virtù e alla guerra, riferimento alla pax armata di Federico.

 

Cusin scrive: “Urbino, la nuova Roma, può essere definita l’illusione di una politica. Realtà che precede l’utopia, come aspirazione politica del mondo moderno” (F. Cusin, op.cit., pag. 88). 
 

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  • Beautiful article ! Thanks, Mauro

    05/06/2020 -  

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